L'autrice
giovedì 16 Febbraio, 2023
di Gabriella Brugnara
Un libro che racconta l’amore per due Paesi e per le loro lingue, l’Italia in cui Igiaba Scego (Roma, 1974) è nata da genitori esuli durante la dittatura di Siad Barre, e la Somalia, il luogo di origine della sua famiglia. Un romanzo che dà voce al male di tutte le guerre e alla ricerca di una cura per tornare a vivere. «Un’autobiografia in movimento», la definisce l’autrice, perché nulla nella vita rimane fermo, pur nella consapevolezza che la materia biografica «è piena di trappole e amnesie». Un racconto franto e al contempo di estrema coerenza narrativa, potente, in cui ogni capitolo è contrassegnato da una parola chiave, espressa in italiano e in somalo, come somale sono anche le ricorrenti espressioni del lessico affettivo, quali mamma «hooyo» e papà «aabo». È il 31 dicembre del 1990, e mentre in Italia scoppia la festa per il Capodanno, la televisione racconta della guerra civile scoppiata in Somalia, e da qui, tra flash back, presente e futuro, la storia si dipana.
Si intitola «Cassandra a Mogadiscio» il nuovo libro di Igiaba Scego appena uscito per i tipi di Bompiani (368 pp., 20 euro) che domani (venerdì 17) l’autrice presenterà alla Libreria Arcadia di Rovereto alle 19.
Igiaba Scego, ha scelto un titolo che dà luce e indica la via dell’intero libro. Perché Cassandra, figlia di Ecuba e Priamo, aveva ragione su tutto? E perché è diventata una «Cassandra a Mogadiscio?»
«La classicità mi ha sempre donato uno sguardo sul mondo e Cassandra ha una lunga storia. È un personaggio pazzesco, vede ma non è creduta, ed è spesso quello che succede alle donne. Cassandra vede non solo la guerra ma il trauma, il disastro, l’inganno. Nessuno nell’estate del 1990 sapeva ancora che, a breve, in Somalia sarebbe scoppiata la guerra civile, anche se Cassandra, perché c’è sempre una Cassandra in ogni luogo, aveva avvertito il popolo somalo della tragedia incombente».
Come è nata l’idea del romanzo autobiografico?
«È stato durante la pandemia, con negli occhi le immagini della guerra in Siria, che risvegliavano quello che già portavo dentro. Sentivo sulla mia pelle che i siriani, ma anche tutti noi, stavamo dentro un’onda infinita di guerra. A scuola siamo abituati a studiare le guerre con le date di inizio e fine, ma queste date sono una menzogna perché la linea della guerra scorre e lacera le carni di più di una generazione. Inoltre, dopo il ricovero in ospedale per una polmonite bilaterale, mia mamma è venuta a vivere da me e il nostro dialogo si è fatto più intenso».
I racconti di sua madre rappresentano il filo conduttore delle pagine.
«Attraverso la sua narrazione, mi sono impegnata in un lavoro di storia orale che ha un po’ curato entrambe. Abbiamo parlato del trauma che sta dentro di noi, seppure in modo diverso. Lei è una reduce di guerra, ma lo sono anch’io, paradossalmente, avendo assorbito la guerra giorno per giorno pur vivendo in Italia, soffrendo per la lontananza, la preoccupazione, le notizie delle persone care che sono venute a mancare».
Oltre al dolore, lei sottolinea la forza del popolo somalo e l’importanza di una lingua comune.
«Ho voluto raccontare la resilienza delle persone, il loro riuscire a sorridere nonostante l’inferno attraversato. Il mio intento era soprattutto quello di creare un collegamento tra le generazioni. Purtroppo, con la diaspora, ci siamo sparpagliati in paesi diversi e parliamo lingue diverse. Le giovani generazioni, a volte, non conoscono il somalo, non c’è una lingua che ci unisca veramente».
Per questo ha scritto il libro nella forma di lettera di una zia a una nipote mettendo al centro la parola «cura»?
«La presenza di Soraya scaturisce proprio dal bisogno di unire le esperienze tra le generazioni. Ho scelto lei perché nel film “Fiore del deserto” ha interpretato una modella somala diventata famosa in Occidente, superando molte difficoltà, tra cui il trauma della mutilazione genitale subita, vissuta anche da mia madre e da molte donne somale».
Perché ha aperto la narrazione parlando del «jirro»?
«Malattia, trauma post bellico, dispersione, maledetta guerra che ci abita dentro e ci spezza, il “jirro” è tutto questo. La parola rimanda anche a un distacco reale con il paese di origine, che non è solo il mio, ma anche delle generazioni precedenti che ricordano una Somalia e una Mogadiscio che non esistono più. Certo per le distruzioni, ma anche per la ricostruzione post bellica, una sorta di equilibrio sopra la follia, con una pace fumosa, piena di insidie a causa del terrorismo. Immagino sia lo stesso ora per gli ucraini o per i siriani ad Aleppo. Spariscono le cose che più ti erano care, e a questo si riconnette il discorso della perdita degli archivi, anche personali».
Lei parla di un’unica guerra, del fatto che le guerre non le vince mai nessuno, a parte «le armi, il sangue, la morte, il pus, le lobby, i padroni, gli altri. Soprattutto quelle dagli anni Novanta in poi.
«Dopo la Guerra Fredda non si è creato un nuovo equilibrio, siamo ancora dentro una sorta di onda tsunami che ci sta travolgendo. Ho questa sensazione profonda di una guerra infinita e volevo raccontare come sia possibile ricucire insieme i pezzi di una vita. Il mio non voleva essere un discorso filosofico, ma quasi “corporale”».
Il corpo è una presenza insistita nelle pagine.
«Lo ritengo centrale non solo in tempo di guerra, ma anche di pace. Il passaggio generazionale comprende anche quello di una donna non più giovane ma neppure anziana, che vive le fasi di pre-menopausa e menopausa. Dieci anni fa questi momenti mi spaventavano, ora ho capito che rappresentano un arricchimento, raccontato purtroppo molto male alle donne. Il corpo è presente nelle pagine anche nella forma di disordine alimentare, o in relazione alle gravidanze difficili, alla violenza ostetrica, oltre a tutto il discorso sulla mutilazione genitale».