Atmosfera
mercoledì 18 Gennaio, 2023
di Simone Casciano
Il pianeta batte un colpo nella lotta per il suo futuro. Un recente rapporto realizzato da Nazioni Unite, Stati Uniti ed Europa sostiene che lo strato di ozono che avvolge la terra si sta rigenerando. Si è quindi invertito quel processo che aveva causato il famoso «buco nell’ozono», in particolare sopra l’Antartide, e portato al protocollo di Montreal del 1987 con cui i 197 firmatari, 196 stati più l’Unione Europea, si sono impegnati a limitare le emissioni alla base del problema. Dopo aver raggiunto la sua massima estensione nel 2000, il buco ha cominciato a restringersi e, secondo il rapporto, dovrebbe chiudersi definitivamente nel 2040. A spiegare la portata di questa notizia è Dino Zardi, professore ordinario di fisica dell’atmosfera all’università di Trento e coordinatore scientifico del Festival-meteorologia di Rovereto. Lo abbiamo raggiunto al telefono mentre si trovava negli Stati Uniti, tra Denver e Boston, proprio per partecipare all’incontro annuale promosso dall’American Meteorological Society.
Professore com’è stata accolta la notizia da lei e dai suoi colleghi?
«È sicuramente una notizia rassicurante. Ci dice che grazie al protocollo di Montreal stiamo assistendo a un ripopolamento della ozonosfera e il trend è incoraggiante».
Professore facciamo un passo indietro ci spiega che cos’è la ozonosfera?
«Certo, allora cominciamo con il dire che l’ozono è una forma “alternativa” dell’ossigeno. La sua molecola è formata da 3 atomi di ossigeno anziché da 2 come nel resto della nostra atmosfera. Si forma a seguito della radiazione ultravioletta nella stratosfera, per questo è abbondante a una quota tra i 20 e i 25 chilometri dalla superficie terrestre».
Che ruolo ricopre?
«Va detto che l’ozono è a tutti gli effetti un agente inquinante alle nostre quote, nella stratosfera invece è fondamentale. Filtra gran parte della radiazione ultravioletta dei raggi solari. È uno scudo fondamentale per tutti gli organismi viventi, per la nostra pelle e per le piante. Essere protetti dai raggi UV è stato fondamentale per la storia del pianeta. Possiamo dire che lo strato di ozono è stato cruciale nell’emersione delle forme viventi dall’acqua e nel popolamento della superficie da parte di specie animali e vegetali».
Un equilibrio perfetto che a un certo punto si è rotto, cos’è successo?
«È accaduto che abbiamo cominciato a produrre su scala globale prodotti di sintesi e in particolare clorofluorocarburi (CFC), che seppur inerti alle nostre quote a livello della stratosfera interagiscono con l’ozono riducendolo».
Cosa sono i CFC professore e come ci si è accorti di quello che stavano causando?
«Uno dei principali esempi è il freon, erano usati come propellenti nelle bombolette spray e come fluidi refrigeranti nei cicli frigoriferi. La diagnostica del problema è arrivata soprattutto grazie a Susan Solomon, chimica dell’atmosfera del MIT, che ha dimostrato come la causa dell’assottigliamento dello strato di ozono fosse causata dalle attività umane e in particolare dai clorofluorocarburi».
E si arriva così al protocollo di Montreal
«Si e ora possiamo dire che ha funzionato, è questo il bello! È una storia di successo e non è una cosa che capiti spesso. E non è l’unica buona notizia».
Cioè?
«Quello che stiamo osservando non è solo che abbiamo ridotto le emissioni di CFC, ma che in risposta a questo la ozonosfera si sta rigenerando. Questo ci dice che il “sistema” pianeta ha delle capacità di recupero intrinseche. Se noi smettiamo di forzarlo a differire dal suo punto di equilibrio è capace di ribilanciarsi».
Come si è raggiunto questo obiettivo?
«Può sembrare banale, ma molto semplicemente si è fatta una transizione. Si è deciso che certi elementi non si potevano più né produrre né commercializzare. Sono state trovate delle alternative e questo è stato tremendamente efficace».
Il buco nell’ozono è legato anche ai gas serra e al riscaldamento globale?
«Non direttamente. Va detto però che negli ultimi anni stiamo osservando un fenomeno particolare. Lo strato di ozono tende ad assottigliarsi durante i mesi invernali, quando i raggi del sole vengono meno, per poi inspessirsi successivamente. Da tre anni osserviamo che questa ricucitura si sta verificando in ritardo rispetto alla norma. Forse questo è legato al surriscaldamento globale ma non è ancora chiaro come. Penso che sia interessante e importante comprendere il fenomeno, ma per ora questo ritardo, di qualche giorno o settimana, non desta preoccupazione».
Il successo del protocollo di Montreal rende ancora più evidente il fallimento di quello di Kyoto. Professore perché non riusciamo a ridurre le emissioni di CO2?
«Perché nel caso dei CFC siamo riusciti a trovare altre sostanze, meno impattanti, che ne prendessero il posto. Con la CO2 è difficile perché è legata alla produzione di energia e quindi abbraccia tutta la complessità della nostra società. A maggior ragione però è fondamentale lavorare per una transizione verde. Lo abbiamo visto anche con l’attuale crisi energetica. Non è solo una questione legata al clima, che dovrebbe essere comunque una motivazione sufficiente, ma anche di equilibri internazionali e di autonomia energetica. Se non altro le rinnovabili sono disponibili un po’ dappertutto a differenza di gas e petrolio».
Secondo lei abbiamo le capacità necessarie per fare la transizione?
«A livello di tecnologie assolutamente si. Con geotermico, solare a concentrazione, fotovoltaico, eolico e idroelettrico siamo già a un buon livello. Certo andrebbe fatto anche un discorso di fabbisogno energetico, ma soprattutto dobbiamo lavorare per costruire case e edifici che invece di essere consumatori di energia diventino, grazie ai loro tetti, produttori. Rimane la questione della disponibilità e dell’immagazzinamento, ma il problema principale è un altro».
Cioè?
«Il problema sono gli investimenti e gli interessi concorrenti. Alle grandi compagnie petrolifere non piace la transizione verso le rinnovabili».
Intanto però andiamo a fare le Cop a casa loro, prima l’Egitto e l’anno prossimo negli Emirati Arabi
«Eh sì, facciamo bene a ricordarcelo questo».
Cosa ne pensa delle temperature di questo inverno?
«Non bisogna farsi incastrare nel dato del momento, le rilevazioni vanno fatte sui tempi lunghi. Detto ciò, sono già 3 anni che abbiamo delle temperature di dicembre alte e questo mi sembra un dato segnale evidente. Il 2022 è stato uno degli anni più caldi degli ultimi decenni. Potrebbe essere un caso, ma guardando i dati sembra il picco di un trend consistente con gli anni precedenti».
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