Il cantautore
venerdì 21 Giugno, 2024
di Gabriele Stanga
«Sono un artigiano della musica»: così Francesco Motta descrive il proprio lavoro. Ma lo si potrebbe anche definire un Orazio della canzone italiana, per fare un riferimento più letterario. Al poeta latino lo accomuna il «labor limae», quella capacità di togliere dalla propria lirica tutto ciò che è di troppo e mantenersi il più possibile aderente al messaggio del testo. «Troppe parole possono essere una maschera», dice il cantautore pisano, che sarà ospite della festa della musica di Cles domani alle 21.30 nella piazza del paese.
La sua produzione vanta quattro album in studio e uno dal vivo. A questi si aggiungono due dischi con la band Criminal Jokers e diverse colonne sonore. Le ultime due sono quelle dei film «The Cage – Nella gabbia» di Massimiliano Zanin e «Non riattaccare» di Manfredi Lucibello, in uscita l’11 luglio. Al cinema lo lega anche il rapporto con la moglie, Carolina Crescentini, una delle più famose attrici in Italia. «Spesso capita di guardare film assieme e di commentarli – racconta – Io per deformazione professionale sono più attento alla musica, lei agli altri aspetti».
Ma come si scrive una colonna sonora per un film?
«Quella per il cinema è un tipo di scrittura che mi riporta di più al mestiere di artigiano della musica, che è la cosa che preferisco. Tutta la parte che fa da contorno al lavoro di cantautore per me non è facile da gestire e a volte anche faticosa. Scrivere una colonna sonora è diverso dallo scrivere un disco per sé, perché si tratta di fare musica per un testo già scritto».
Quali sono le pellicole per cui le è piaciuto di più lavorare?
«Ci sono film per cui è stato più semplice e altri per cui il processo è stato più lungo. “The Cage” e “Non riattaccare”, gli ultimi due film per cui ho lavorato hanno approcci molto diversi e colonne sonore molto diverse. Per entrambi è stato un bel lavoro».
Con quali registi c’è stata l’intesa migliore?
«Con tutti, da Simone Manetti a Manfredi Lucibello, fino a Claudio Cupellini e Massimiliano Zanin. Sono stato molto fortunato, forse anche perché tutti i registi con cui ho lavorato avevano ben chiaro in testa il fatto che volevano me per scrivere la musica dei loro film. La colonna sonora ha anche un aspetto autoriale all’interno del cinema, che va valorizzato».
E quanto parla di musica e cinema con sua moglie?
«Ne parliamo tanto. Io faccio sempre sentire a lei e mia madre i miei provini. Credo che abbiano una lucidità maggiore rispetto a chi fa il musicista. Chi è del mestiere dà consigli tecnici ed è molto condizionato anche da quell’aspetto. Chi non lo fa ha un orecchio esterno, per così, più libero. Lo stesso accade con il cinema a parti inverse, andiamo spesso a vedere proiezioni assieme. La bellezza sta anche nel fatto che abbiamo visioni diverse. Di recente è capitato che lei apprezzasse molto un film che a me non è piaciuto».
Qual era?
«Non me lo chieda, non si può dire (ride, ndr)».
La metafora cinematografica torna anche nel brano «Titoli di coda», con Willie Peyote. Com’è nata questa collaborazione?
«È nata dopo varie serate passate insieme, fino a quel momento l’unico featuring che avevo chiesto era stato con mia sorella Alice (violoncellista nella prima band di Francesco, i Criminal Jokers e oggi musicoterapeuta). Con Willie c’è un rapporto speciale, ci accomuna l’idea di prendersi troppo sul serio. Da qui siamo partiti per scrivere il brano. In generale anche quando sono gli altri a chiedermi di fare un featuring, accetto se c’è prima un contatto umano. È stato così con i Sick Tamburo e anche con gli Zen Circus, che sono praticamente dei fratelli. Andrea Appino è stato anche mio testimone di nozze».
Un’altra immagine ricorrente nei suoi pezzi è quella della fine. La fine dei Vent’anni, La musica è finita. Come vive gli epiloghi Francesco Motta?
«La musica mi aiuta a masticare la fine. Grazie alle canzoni riesco ad elaborare le cose che di solito mi fanno paura. E i finali mi fanno un po’ paura. Quando sento che qualcosa è finito, con la musica riesco a scattarne una fotografia».
E come guarda oggi al suo primo disco?
«Ripenso a quel disco con grande tenerezza, in senso buono. Le paure che avevo alla fine dei vent’anni sono diverse da quelle di oggi. Molte delle cose che temevo, alla fine sono andate bene, meglio di quanto mi aspettassi».
Un elemento per lei molto importante è l’uso della parola, viene prima il testo, quindi o prima la musica?
«Il messaggio che racconto può venire anche da un pezzo strumentale. Nel mio hard disc si trovano centinaia di pezzi strumentali, ma è più difficile trovare una canzone. Quando arrivo al testo, però, l’uso della parola deve necessariamente essere chiaro. Non è difficile di per sé scrivere un testo ma è difficile scrivere un testo che abbia senso con la musica».
I suoi testi sono poetici ma molto asciutti e diretti, è una scelta stilistica precisa?
«Io parto sempre dall’idea di togliere a prescindere dal tipo di immagine. A volte capita che ci siano pezzi dove tornando indietro andrei a levare. Troppe parole possono essere una maschera che copre il messaggio chiave».
E in vista del concerto di Cles c’è anche una novità di formazione.
«Per questo tour è entrata nella band Roberta Sammarelli dei Verdena. Ha registrato con noi un paio di canzoni a Milano. Ci siamo sentiti subito particolarmente a nostro agio e mi è venuto quasi spontaneo chiederle di suonare con noi anche dal vivo. Ha accettato con grande entusiasmo».
E com’è lavorare con lei?
«È sempre la prima che si presenta alle prove. La sua bravura viene anche da una disciplina incredibile, che ci ha fatto alzare ancora di più l’asticella. Non ho mai capito cosa vuol dire suonare bene, ma so benissimo che i musicisti con cui lavoro suonano bene. Quest’estate ce la stiamo godendo a livello umano e ci stiamo divertendo molto».
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