L'editoriale
giovedì 9 Febbraio, 2023
di Elena Pavan
L’eco della vicenda Cospito è arrivata fin negli Stati Uniti dove mi trovo da qualche mese. Chi si aspetta che qui il caso dell’anarchico in sciopero della fame ormai da ben più di cento giorni abbia generato lo stesso boato che rimbomba tra stampa, telegiornali, social e aule parlamentari italiani rimarrà deluso. Il caso Cospito qui è arrivato in modo flebile, attraversando un oceano e un continente intero per raggiungere Tucson solo attraverso piccoli trafiletti online. Uno sul Washington Post raccontava in modo molto asciutto del trasferimento di Cospito al carcere di Opera menzionando la sua appartenenza al movimento anarchico ma anche le sue precarie condizioni di salute.
L’articoletto dava inoltre conto delle proteste a Roma e Milano, delle macchine incendiate in Germania, delle lettere con i proiettili consegnate a Torino e Livorno. In chiusura, riprendeva un comunicato stampa della Presidenza del Consiglio secondo il quale «la violenza non intimidirà le istituzioni. Ancor meno se l’obiettivo è quello di alleggerire le norme di detenzione più dure per i responsabili di atti terroristici».
La scarsa attenzione al caso in sé non mi ha particolarmente sorpresa. Capita spesso e praticamente ovunque che le vicende interne ad altri Paesi non suscitino un grande interesse a livello nazionale. Dal mio punto di vista, questo è un vero peccato perché sono convinta che se guardassimo un po’ più in là del nostro naso e alle vicende che capitano altrove (anche quando non sono guerre, esecuzioni, disastri) credo impareremmo molto e, forse, agiremmo meglio.
Ad ogni modo, più delle discrepanze nell’enfasi posta sul caso, quel che mi ha colpito sono le sue diverse narrazioni. A leggere i trafiletti qui, gli eventi che girano intorno allo sciopero della fame e alla detenzione di Cospito sono raccontati come una storia certamente spiacevole ma, tutto sommato, sotto controllo. In altre notizie ho rintracciato le dichiarazioni di Piantedosi sull’aumentato livello di attenzione per le proteste, la ferma condanna di Tajani alle violenze «contro lo Stato e le autorità», e il chiarimento del guardasigilli Nordio sul trasferimento di Cospito che non deve essere inteso come una concessione ma, piuttosto, come un dovere di obbedire al «sacro principio» di salvaguardare la salute di un detenuto.
Insomma, in buona sostanza, vista da qui sembra una situazione da «Don’t worry, we got this» – cioè, non preoccupatevi, ci pensiamo noi.
Sfido chiunque stia seguendo la questione in Italia a dire che questa narrazione corrisponde a verità. Non solo mi sembra che «we don’t get this at all» – non ce la facciamo proprio – ma mi sembra anche che non ci sia in realtà nessuna volontà di provarci. La detenzione di Cospito in regime di 41bis non è una vicenda da lasciare in sospeso (almeno) fino a quando la Corte di Cassazione non si pronuncerà. Piuttosto, è un rumoroso e ostinato arrocco da parte delle autorità statali rispetto a una vicenda che tocca alcuni nervi scoperti che provocano convulsioni politiche come quelle a cui abbiamo assistito nei giorni scorsi.
Sottolineo di non aver affermato che si tratta di un arrocco del governo Meloni – giacché più volte è stato correttamente ricordato che il cambio di regime di detenzione per Alfredo Cospito è stato deciso dalla ministra Cartabia durante il governo Draghi. In questo senso, il guardasigilli Nordio avrebbe gioco facile a dire che questo è solo uno dei tanti «pesi» scaricati sulle spalle di questo governo da quelli precedenti. Invece mantiene il pugno duro perché, semplicemente, è così che si fa in questi casi. Quella che sembra l’ennesima emergenza cui deve far fronte il governo Meloni è invece solo l’ultima puntata di una serie che va in onda da diverso tempo e che cambia personaggi ma racconta spesso la stessa storia: o si sta con contro chi lo Stato definisce come minaccia o, automaticamente, si è contro lo Stato.
Non si tratta di una semplificazione costruita con intento accusatorio ma, in verità, di riconoscere che esiste un modo, non solo a destra, di gestire politicamente lo Stato seguendo un principio che impariamo molto presto quando entriamo in società: i nemici dei miei nemici sono miei amici. Se non ci si allinea al pugno di ferro su Cospito si diventa parte di quella che Tajani ha chiamato «l’internazionale anarchica», sei un sovversivo o perfino, un complice della mafia – anche se sei il Pd, un partito con chiare tendenze distruttive rivolte però prettamente contro di sé.
Avere nemici è inevitabile come inevitabile è il conflitto sociale. Non deve perciò stupire che i toni si alzino quando la protesta si fa ostinata (dentro e fuori il carcere). Tuttavia, chiunque o qualunque organizzazione che miri a gestire una collettività in modo legittimo e con una autorità riconosciuta (e non imposta) dovrebbe però saper riconoscere che i nemici sono tali perché puntano il dito dritto verso le nostre contraddizioni. Sollevare la questione della proporzionalità e ragionevolezza della pena nel caso di Alfredo Cospito non significa prendere le parti dell’anarcoinsurrezionalismo ma, piuttosto, chiedere allo Stato – quindi all’istituzione intera e non solo alle parti politiche che la incarnano in un determinato momento – di occuparsi di questioni importanti come la normalizzazione del 41bis, lo statuto dell’ergastolo ostativo e sì, anche della condizione in cui versano le carceri italiane e del modo in cui si concepisce e si agisce il dispositivo della pena carceraria.
Sono questioni urgenti, non solo perché l’ostinata protesta di Cospito potrebbe portarlo alla morte, ma perché è tempo che vengano affrontate seriamente, lasciando perdere inamovibili e aprioristiche prese – o forse sarebbe meglio dire, pretese – di posizione. Come afferma in recente un dossier sul caso Cospito l’associazione Antigone «uno Stato forte e autorevole deve avere capacità di ascolto e di rivedere le sue decisioni». Dovesse accadere, come mi auguro, questo sì che sarebbe davvero un caso unico da cui tutti avrebbero molto da imparare.
Elena Pavan, editorialista de il T, è sociologa e docente al dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’università di Trento
L'editoriale
di Simone Casciano
I promotori puntano a superare la soglia di 8.400 votanti, quelli che si recarono alle urne per le provinciali del 2023. Il successo nelle urne rischia di diventare un problema per la giunta provinciale