la recensione
mercoledì 22 Novembre, 2023
di Tommaso Di Giannantonio
Si ride e si piange, si gioisce e si resta impietriti. C’è ancora domani è un vortice di emozioni. È un film civile sull’emancipazione femminile, che indaga e denuncia la violenza contro le donne. Al suo debutto da regista Paola Cortellesi ha scelto di esplorare un tema così cupo (e delicato) sotto una lente irrituale: con le parole, le espressioni, le movenze e i tempi dell’ironia. Ci si prende beffa della violenza, ma per rivelarne lo statuto culturale.
Il film è ambientato in un quartiere popolare di Roma, Testaccio. Anno 1946, immediato dopoguerra. La telecamera entra in casa di una famiglia umile. Lui tombarolo, lei casalinga e mille altri lavoretti: dalla riparazione degli ombrelli alla rammendatura di calze e reggiseni, fino alle punture nei palazzi nobiliari. Lui, soprattutto, reduce da du’ guere. Tre figli: una ragazza adolescente e due bambini. C’è anche il nonno paterno, che se ne sta tutto il giorno al letto ed è assistito dalla nuora. È la più classica delle famiglie patriarcali: lui, Ivano, è il capo assoluto (quello che porta i soldi a casa e trova la cena pronta); lei, Delia, è la serva (quella che non può uscire senza il permesso del marito e prepara la cena). Tutto gira attorno agli umori dell’uomo di casa.
Il film inizia con un bel ceffone di prima mattina. I due coniugi si sono appena svegliati, sono ancora al letto, lei gli dà il buongiorno, lui si gira e sbem. Il primo schiaffone della giornata. La violenza è routine, come il buongiorno al mattino. In casa Santucci (conta solo la discendenza dell’uomo) la violenza è il ritmo della quotidianità. Potrebbe lasciare interdetti la scena in cui la sopraffazione si trasforma in un ballo: il marito picchia la moglie mentre i due si muovono a ritmo di danza. I nostri occhi non sono abituati a vedere la violenza sotto questa lente, né dal vivo né nelle sue rappresentazioni. Ma la cultura della violenza sta tutta lì: nelle pratiche quotidiane.
Dentro quella casa la prevaricazione scandisce le ore. Quella fisica è preceduta da un rituale. Lui fa capire le sue intenzioni e si volta di spalle. Lei manda i figli in camera. Tutti – anche i due bambini, seppur nella loro innocenza – sanno ciò che accadrà. L’angoscia di quell’attesa trasuda dallo schermo. Lui la stringe al collo. I lividi appaiono e poi scompaiono. Riappariranno solo un’altra volta. Li noterà un soldato afroamericano di stanza a Roma, estraneo a quel quartiere, e simbolicamente a quella cultura. Tutti gli altri sembrano assuefatti alla violenza. Sul corpo di Delia i lividi ci sono, ma sono invisibili.
Le vessazioni sono continue. Però quando è troppo è troppo. Un giorno Sor Ottorino, il nonno, rimprovera suo figlio. «Alla fine dei conti, lei è ‘na brava donna de casa», osserva dal letto. Ivano è sconsolato, sembra accorgersi dei suoi errori. «È che me ‘e leva dalle mano…», prova a giustificarsi. La risposta del padre è esilarante perché ribalta le attese (e le speranze) dello spettatore. «Non glie poi mena’ sempre, sennò s’abitua. Una, ma forte!», conclude Sor Ottorino, suggerendo a Ivano di seguire il metodo adottato con la madre. La violenza si tramanda di padre in figlio.
La figlia adolescente, Marcella, prende consapevolezza dei soprusi subiti dalla mamma. La esorta ad andarsene. Facile a dirsi, ma difficile a farsi per una donna che ha donato la sua vita ai figli. La violenza deve essere sopportata per l’unione della famiglia: un pensiero diffuso che sorregge ancora oggi la violenza di genere. Delia farà di tutto affinché la figlia abbia una vita diversa. Davvero di tutto, anche azioni esplosive. Insiste per ospitare a pranzo la famiglia del promesso sposo di Marcella, una famiglia benestante, ma scopre che la violenza di genere è un codice che appartiene a ogni ceto. Come direbbe Sor Ottorino, ogni donna, di qualsiasi estrazione sociale, se deve imparà a sta zitta, a stare «a bocca chiusa».
La sua migliore amica, Marisa, non vive «a bocca chiusa». Anzi, urla e scherza dal suo banco di frutta e verdura. Lo fa a fianco al marito, con il quale vive una relazione di parità. Marisa è libera, indipendente. Incarna la possibilità di un’altra vita. Una possibilità che si ripresenta ogniqualvolta Delia incontra Nino, il meccanico del quartiere, un uomo a cui è legata da un amore giovanile. Lui la desidera, non la possiede. Attende, non pretende. Marisa e Nino, ognuno a suo modo, aiuteranno Delia a sovvertire l’ordine delle cose. In un atto rivoluzionario Delia riacquisisce la libertà, dimostra alla figlia che non si è arresa al suo «destino» e le indica la rotta, un domani diverso.
Chi più, chi meno, chi direttamente, chi indirettamente, tutti noi abbiamo vissuto oppure viviamo le dinamiche della famiglia Santucci, a prescindere dalla loro gradazione. Ed è per questo motivo, forse, che il film ha avuto così tanto successo. Perché ci riguarda tutti. Siamo nati e cresciuti in quella cultura e viviamo nella medesima relazione (asimmetrica) di potere. La violenza contro le donne si riproduce nel quotidiano. Nessun uomo può sentirsi assolto. Siamo tutti corresponsabili. Atteggiamenti, parole, comportamenti: tutto ciò che genera asimmetria, genera violenza.
Il film di Cortellesi è un esame di coscienza (collettivo) che deve farsi quotidiano. Per raggiungere una routine di parità, non c’è ancora domani, c’è oggi.
gli eventi
di Jessica Pellegrino
Al Teatro Sociale in scena «Cose che so essere vere (Things I Know to Be True)» di Andrew Bovell: il primo allestimento italiano di questo toccante, divertente e coraggioso dramma