La storia
mercoledì 24 Aprile, 2024
di Lorenzo Fabiano
L’inferno in 100 giorni. Trent’anni fa il mondo si vide sbattere in faccia orrori che pensava di essersi per sempre lasciato alle spalle dai tempi dell’Olocausto della Seconda guerra mondiale. La mattanza del genocidio in Ruanda ebbe inizio la sera del 6 aprile del 1994 quando l’aereo presidenziale dell’allora presidente Juvénal Habyarimana, al potere dal 1973, fu abbattuto da un missile mentre era di ritorno col presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira dalla Tanzania per dei colloqui di pace. Fu quella la scintilla che scatenò la maggioranza Hutu, classe dirigente al potere, in una caccia all’uomo nei confronti della minoranza Tutsi. Una carneficina che a colpi di machete fece un milione di morti. Nessuna pietà nemmeno per i bambini. «Ogni volta che ne parlo è una ferita che si riapre, ma diciamo che con gli anni ho sviluppato gli anticorpi», confessa Fabio Pipinato, trentino di Mesiano con una vita nel mondo della cooperazione (già presidente di Mandacarù, la più grande cooperativa italiana di commercio equo e solidale, è stato vicepresidente del Centro per la Cooperazione Internazionale di Trento). E fu proprio il suo impegno a portarlo in Ruanda nel 1993 e a essere lì in quella drammatica primavera di sangue del 1994.
Pipinato, dove si trovava quel 6 aprile del 1994?
«Io e mia moglie Paola lavoravamo per due Ong, l’associazione Medicus Mundi e la Fondazione Tavini di Brescia, come fisioterapisti al primo ospedale ortopedici costruito in Ruanda, a Rilima a circa 60 chilometri dalla capitale Kigali e vicino al confine con il Burundi».
Avevate sentore di cosa sarebbe successo?
«Già a febbraio ce l’eravamo vista brutta, e fu il console Pierantonio Costa (imprenditore italiano che viveva a Kigali, un “Perlasca d’Africa” che nei giorni del genocidio trasse in salvo duemila persone, ndr) a portarci al sicuro a Kigali. La pace era stata firmata con gli Accordi di Arusha del 1993, ma non tutti la volevano. Da mesi stavano preparando il massacro dei tutsi, in gran segreto. Venivano smerciati i machete, che chiamavano “assi di balestra” e dicevano servissero per operazioni di disboscamento. E invece l’operazione era il genocidio. Da Kigali si estese a macchia d’olio in tutto il Ruanda, qualcuno riuscì a fuggire in Burundi, ma in 48 ore i confini erano tutti chiusi».
Al vostro ospedale che successe?
«Accogliemmo sempre più tutsi che cercavano rifugio da noi. Li nascondemmo, ma ogni giorno erano sempre di più e il cibo cominciava a scarseggiare fino a che non ne avevamo più. All’interno dell’ospedale ci dividevamo i compiti; noi italiani eravamo sei, il resto del personale era un’equipe belga e dei docenti congolesi che insegnavano fisioterapia. Gli interahamwe, i genocidari, vennero anche da noi ma non trovarono nulla. I tutsi erano tutti nascosti».
Immagino regnasse il terrore…
«A trent’anni non avevo idea del pericolo che stavamo correndo. I rifugiati ci chiedevano di andare a recuperare i loro famigliari; Giravo su una jeep, e tutto quello che avevo era una pistola scacciacani, due archi e bottiglie per fare le molotov. Comunque, quella pistola finta fu un buon deterrente che funzionò da lasciapassare».
Come usciste da quell’inferno?
«Il 7 aprile arrivò la telefonata dal Ministro degli Esteri Beniamino Andreatta, allora in qualità di facente funzioni in quanto si stava per insediare il Governo Berlusconi; ci disse che sarebbero venuti a prenderci. Le “teste di cuoio” belghe arrivarono dopo un mese; conoscevano alla perfezione il territorio, avevano mappe dettagliate. I tutsi che nascondevamo spuntarono ovunque, ma rimasero raggelati quando vennero a sapere che l’ordine era di salvare solo i bianchi. Terribile. Questo perché a Kigali erano stati uccisi dieci caschi blu belgi che facevano da scorta alla prima ministra Agathe Uwilingiyimana, uccisa anche lei».
Un’apartheid nei soccorsi, incredibile. Quei tutsi riuscirono poi a espatriare?
«Atterrammo ai primi di maggio a Bruxelles. Ad attenderci c’erano il ministro belga e il nostro console, che gli mostrò tutto lo sdegno nel rinfacciargli come i patti non fossero stati rispettati. Tutti dovevano essere salvati, non solo i bianchi. Fu così che su pressione del nostro console e del governo Berlusconi che non voleva far brutta figura, il Belgio inviò in missione gli Apache a salvare quanti erano rimasti all’ospedale. Gli adulti vennero accolti in Belgio, i piccoli a Castenedolo di Brescia. Oggi hanno 30-40 anni, si sono integrati e lavorano tutti. Uno è diventato il cuoco di Balotelli».
La guerra civile si risolse con la vittoria del Fronte Patriottico Ruandese, capeggiato dall’attuale presidente Paul Kagame; poi la situazione si capovolse e partì una caccia all’Hutu…
«Proprio così. La Francia lanciò l’Operazione Turquoise per salvare gli hutu francofoni. Non dimentichiamo che il presidente Mitterand era amico di Habyarimana, e i francesi gli salvarono la famiglia. L’Operazione Turqouise mise in sicurezza un terzo del Paese, il nordovest. In realtà la caccia all’hutu era il pretesto per ben altro…».
Cosa?
«Con la scusa di spingere sempre più in là i genocidari, insediati nella regione del Kivu, Kagame si è preso parte del Congo e il suo vero obiettivo sono i ricchissimi giacimenti minerari del Katanga che fanno gola alle grandi holding del mondo. Dal 1994 in poi secondo le stime Onu la guerra in Congo ha fatto 5 milioni di morti».
Lei è più tornato in Ruanda?
«Sì, una decina di anni dopo il genocidio del 1994. E ho visto con i miei occhi le milizie M23, sostenute dal Ruanda, entrare in Congo a fare pulizia etnica».
Che Paese è il Ruanda oggi?
«Viene definito “La Svizzera dell’Africa”. Kagame è un dittatore illuminato: il Ruanda è il Paese con più donne in parlamento, e hanno fatto grandi cose. La corruzione non esiste. Il presidente s’incensa di tutto questo, ma se alle elezioni ti candidi contro di lui fai la fine degli oppositori di Putin. Kigali è una metropoli con i grattacieli, hanno investito in infrastrutture, le strade hanno piste ciclabili e marciapiedi. Proprio a Rilima, dove c’è il nostro ospedale con oggi la scuola di fisioterapia, stanno costruendo il nuovo aeroporto internazionale destinato a divenire un grande hub africano. Kagame è consapevole del fatto che gli europei sono più bravi a gestire i capitali, così gli affida ancora l’amministrazione dei grandi progetti. Purtroppo, a fare le spese di questo straordinario sviluppo del Ruanda è il Paese vicino, il Congo».
E in quanto a democrazia e diritti umani come stiamo?
«Oltre 250.000 persone sono finite nelle carceri, in condizioni disumane. La distinzione tra le due etnie non c’è più nemmeno nelle carte d’identità. L’establishment è quasi tutto tutsi, ma alle famiglie hutu poco importa ormai. “Meglio così, piuttosto che la guerra” dicono. I diritti umani? A chi ha subito un genocidio non puoi parlare di diritti umani, “ma di che parliamo, finché ci facevano a fette il mondo restava a guardare” ti rispondono».
Oltre al Ruanda qual è stata la «sua Africa»?
«Il Kenya, l’Africa bella, quella dei parchi e delle opportunità, dove siamo stati tre anni e dove hanno studiato i nostri figli. E poi il Mali, con la guerra in casa la tra Wagner e Jihad; lì i francesi son scappati e il regime golpista è ora il nuovo avamposto russo nella regione del Sahel».
Il futuro dell’Africa?
«L’Africa se la stanno prendendo tre nuovi imperi: Cina, Russia e Turchia, che stanno scacciando le ex colonie europee».