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mercoledì 21 Giugno, 2023
Il Milan di Berlusconi «obbligato a vincere» e le mie dimissioni da tifoso
di Paolo Ghezzi
Il ricordo di Paolo Ghezzi: quella lettera aperta al cavaliere che si apprestava a forgiare la squadra dei record

Berlusconi non era ancora Berlusconi. O meglio: era già il Berlusconi del mattone e del pallone, non era ancora il politico Campione. Ma aveva già idee chiarissime (e padronali) sullo sport, sulla vita e sulla politica.
Gli piaceva vincere. Vincere. Con ogni mezzo e con tutti i soldi necessari. Teorizzò infatti, all’inizio di quel 1992, che il suo Milan doveva avere 22 titolari fortissimi e intercambiabili (allora era fantascienza) per vincere sempre. Sempre.
A me, ancora milanista e romantico idealista, quelle parole apparvero una intollerabile provocazione. Al milanismo romantico, all’idealismo sportivo. Sepolto dalla neve in una montagna austriaca, scrissi al presidente della Fininvest, Segrate. Scrissi che noi antichi milanisti avevamo lottato, sudato, sofferto per un «Diavolo» che vinceva e poi perdeva, e poi magari retrocedeva in serie B ma poi resuscitava, che splendeva con Rivera e poi magari inciampava in un Calloni.
Insomma, non volevo un Milan bionico che uccideva l’alea di Eupalla (la dea del calcio inventata da Brera). Volevo un Milan umano e imperfetto, pre-berlusconiano: perciò, mi dimettevo da tifoso che aveva vissuto perfino, dal vivo al Bentegodi, l’umiliazione della fatal Verona 1973, lo scudetto sfuggito all’ultima partita, vinta dallo Hellas 5 a 3. Quel Milan intollerabilmente imprevedibile e sciagurato, volevo.
Mandai copia del grido di dolore a due giornalisti sportivi che stimavo molto: Gianni Mura della Repubblica e Giampaolo Ormezzano, allora alla Stampa.
Un paio di mesi dopo, quando Berlusconi terremotò il pianeta del pallone comprando Gianluigi Lentini, attaccante del Torino che allora passava per un nuovo Pelé (chissà perché) per il prezzo fuor di testa di 65 miliardi di lire, un record di arroganza finanziaria, la mia letterina (a cui il Cavaliere non si degnò mai di rispondere, che tipo) tornò d’attualità.
Ormezzano mi citò sulla Stampa e la redazione del primo talk show di Gad Lerner, «Milano Italia», mi voleva in studio per darmi in pasto agli ultras rossoneri. Declinai l’invito e rinunciai alla fama, però Lerner mi citò e il dg del Milan mi schernì in contumacia: «Mi sa che ’sto Ghezzi non è un vero milanista. Un criptojuventino, magari». Mura, fine conoscitore di calcio, di Tour e di enogastronomia connessa, che aveva sposato una trentina della dinastia dei Gius con trattoria in Port’Aquila, mi mandò un autografo che conservo gelosamente, e che, lui defunto e defunto anche Berlusconi, disvelo in esclusiva per ilT: «Milano, 15.5.92. Egregio signor Ghezzi, dubito che Berlusconi possa trovarsi d’accordo con lei e, temo, anche molti tifosi del Milan. Berlusconi ha un’attenuante: sa che la sua immagine “vincente” (come si usa dire oggi) dipende moltissimo dai risultati del Milan, e il suo realismo mal si concilia coi sogni. Io non tifo per nessuno, ma la capisco. Cordiali saluti. Gianni Mura». Ora che il re realista è defunto, in pompa magna «assunto in campo» con tutti i suoi scandali (Lentini incluso), brindo alla penna di Mura, con un vino francese che gli piaceva. Alla fine vincono i sogni.
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