L'intervista
mercoledì 5 Aprile, 2023
di Tommaso Di Giannantonio
È un fenomeno modesto, numericamente non (ancora?) rilevante, composito, spontaneo, senza una regia istituzionale. Ma c’è, esiste. Anche in Trentino. Nuove forme di ripopolamento delle valli che assumono i tratti di una transizione sociale. Dove condurrà rimane da scoprire. Intanto la si osserva, la si indaga, in tutte le sue sfaccettature: i migranti che abitano «gli spazi rimasti vuoti», i «ritornanti» che si rimpossessano delle case dei nonni, giovani che si fanno imprenditori agricoli e, infine, tra i «nuovi» abitanti, gli «smart workers». Marta Villa è un’antropologa culturale dell’area alpina che lavora al Dipartimento di Sociologia dell’Università di Trento. Nei suoi progetti di ricerca sul campo (dal 2010) si occupa di spopolamento/ripopolamento delle cosiddette «aree interne», quelle periferiche, lontane dai servizi dei centri urbani. «Lo spopolamento non è un fenomeno recente – spiega – In Trentino la modernità è arrivata tardi. La svolta è stata data dal governo Kessler (1960-1974) e dal Piano urbanistico di Samonà. Ma dal secondo dopoguerra fino agli anni Sessanta i trentini sono emigrati spopolando le valli di minoranza, come gli Altipiani Cimbri, il Vanoi, il Primiero, la Val di Cembra e alcune parti della Val di Sole. In alcune zone, come la Val di Fassa e la Val Rendena, i paesi si sono spopolati meno per via del turismo, ma in tutte le altre aree periferiche i giovani o emigravano oppure scendevano a Trento. Ora, invece, è in corso un doppio fenomeno di ripopolamento».
Di cosa si tratta?
«Da un lato abbiamo il fenomeno di ripopolamento da parte dei migranti. Nelle Alpi occidentali questo fenomeno è iniziato prima. E ora anche in Trentino abbiamo esempi di migranti che decidono di fare lavori che le persone del posto non vogliamo fare, come l’allevatore, il coltivatore o il pastore, abitando gli spazi rimasti vuoti. Spesso sono persone che arrivano da Paesi dove la ruralità è pressoché identica».
L’altro fenomeno?
«Registriamo la presenza di giovani trentini della generazione dei Millenials (1980-1996) o Zeta (1997-2012) che, facendo un salto generazionale, riprendono i lavori dei nonni o dei bisnonni. I campi rimasti incolti vengono riacquisiti dai nipoti e vengono messi a rendita con i vigneti, i meleti o gli allevamenti. Molto spesso questi giovani entrano a pieno titolo nell’attività come imprenditori agricoli. L’aspetto interessante è che abbiamo una fascia di part-time nella generazione dei Baby boomer (1946-1964) e X (1965-1980), mentre abbiamo una fascia di imprenditori full-time nella generazione dei Millenials e Zeta. Vuol dire che una persona della mia età o di mio padre lo fa come secondo lavoro, quindi non si pensa come contadino, ma lo fa perché vuole portare avanti una tradizione o perché si rilassa andando a sistemare le vigne. Invece le generazioni più giovani vogliono costruire una vita lavorativa sui campi. E dai dati ricavati dalle interviste sono molto decisi a intraprendere questa strada. C’è poi un altro aspetto interessante di queste due generazioni più giovani».
Cioè?
«In certi casi fanno scelte che vanno controcorrente. Molti fanno agricoltura biologica, biodinamica oppure scelgono delle varietà di mele che non sono così redditizie. In poche parole, mettono in discussione il modello di sviluppo agricolo tradizionale. Vogliono provare ad essere innovatori, non tutti ovviamente. Sarà interessante capire quale dei due processi contaminerà l’altro. In questo momento non possiamo dare una risposta perché tutti questi nuovi imprenditori si sono appena affacciati al mondo agricolo. Molti di loro, però, non rinnegano i nonni, anzi, hanno avviato un
dialogo con loro e sono andati a riscoprire i vecchi attrezzi. Il bello è che sono quasi tutti laureati: percepiscono un’eredità sulle loro spalle e cercano di mettere assieme i due saperi. Una dinamica che noi, come antropologi, abbiamo osservato dall’altra parte del mondo: il la è stato dato dall’America Latina. Questa transizione agro-ecologica è partita da quel mondo ed ora sembra essere una delle soluzioni possibili alla crisi climatica, in particolare alla perdita di biodiversità».
Si tratta di un fenomeno numericamente rilevante?
«Non è ancora considerabile. Sono macchie di leopardo. Per ora è un fenomeno numericamente esiguo, ma perché è appena iniziato e perché va in dialettica con convinzioni molto radicate. Sarebbe più facile se ci fosse un terreno completamente vergine, spopolato. I conflitti generazionali, però, sono utili, arricchiscono un territorio».
Il telelavoro e il lavoro agile (smart working) hanno generato un fenomeno di ripopolamento?
«È ancora presto per dirlo. Sicuramente, durante e dopo la pandemia, molte persone hanno voluto cambiare stile di vita e alcune di queste si sono spostate dalle zone più caotiche della pianura a quelle più rilassanti della montagna. Lo smart working e tutta una serie di altre possibilità offerte dal lavoro agile hanno dato l’opportunità di (ri)vivere nelle Alpi. Però le persone che vengono da fuori sono generalmente persone privilegiate, che già a Milano o a Verona, per esempio, godevano di buone possibilità economiche. Ci sono poi i ritornanti…».
Chi sono i «ritornanti»?
«Sono quelle persone di origine trentina che magari riprendono la casa dei nonni alla luce delle possibilità offerte dal lavoro agile o dallo smart working. Anche questa dinamica sta dando una nuova visione di ripopolamento. Sarà interessante capire come queste persone interverranno nella socialità dei paesi e nella gestione del patrimonio naturale – pascoli, terreni, boschi – delle comunità regoliere. È una di quelle dinamiche che, come antropologi, ci interessa comprendere perché possiamo osservare lo sviluppo di antiche modalità di gestione, precedenti alla rivoluzione industriale e adattate al nuovo millennio e ai nuovi processi storico-sociali. È interessante, in particolare, vedere quanto queste comunità siano permeabili e quanto siano disposte ad accettare e a valorizzare nuovi ingressi».
Qual era la situazione prima di questi fenomeni? Il vuoto?
«I processi sono lenti e lunghi. Abbiamo avuto processi di spopolamento e ripopolamento che hanno avuto un inizio, sono arrivati ad una convergenza e poi si sono riallontanati, come una sorta di filarmonica. Le Alpi, in particolare, permettono più di altri territori questa lentezza perché da un lato sono conservatrici e dall’altro incentivano le sperimentazioni, semplicemente perché se ne avverte la necessità. Per questo le Alpi sono definite come un laboratorio».
Un laboratorio ricco di contraddizioni, basta vedere le differenze di popolamento delle valli fra il Trentino e l’Alto Adige. Come mai?
«C’è un’interessante contraddizione fra le due province. Nel periodo del dottorato sono andata a intervistare l’ex presidente della Provincia di Bolzano Luis Durnwalder e mi disse che quando è diventato governatore si era fissato un unico obiettivo: far sì che nessun paese del Sudtirolo, anche il più piccolo, si spopolasse. Per raggiungere questo obiettivo aveva in mente tre cose: mantenere un negozietto, mantenere i servizi minimi e portare una strada. Quest’ultima cosa, che può sembrare orrorifica per il pensiero ecologista, ha contribuito ad evitare lo spopolamento dell’Alto Adige. In Trentino, innanzitutto, non c’è stato nessun politico che ha governato per 25 anni, un periodo così lungo permette una costruzione progressiva, tassello dopo tassello. Allo stesso tempo, nessuno, o comunque pochi politici, ha investito in questi tre aspetti in tutti i paesini. Per evitare lo spopolamento bisogna garantire la possibilità di vivere con dignità. La differenza sostanziale fra il Trentino e l’Alto Adige è che il Trentino è da sempre Trentocentrico, mentre l’Alto Adige non è Bolzanocentrico. Anche chi ha governato prima di Durnwalder aveva la necessità politica di dare un potere attivo alle valli: Durnwalder l’ha portata all’estremo. Il Trentino, invece, pur con la capacità politica di Kessler, è rimasto Trentocentrico: una visione che porta a creare benessere dove è più semplice crearlo privilegiando la città e alcune valli vocate al turismo. Ancora oggi ci sono valli dimenticate, dove le persone si sentono figlie di un dio minore. Spesso chi le valorizza è l’associazionismo».
È un bene o un male che la spinta arrivi dal basso?
«È sicuramente un bene perché è segno di una certa maturità dei territori. Potrebbe essere la spia di un’inversione di tendenza, un momento di passaggio in cui la costruzione politica non avviene più dalle istituzioni, ma avviene dai singoli cittadini. Siamo in un momento, inoltre, in cui potrebbe essere messa in discussione l’autonomia trentina visto che è in corso un ripensamento sulla nostra Carta costituzionale. L’autonomia del Trentino-Alto Adige è stata architettata da De Gasperi quando è stata scritta la Costituzione italiana, per cui se si comincia a mettere in discussione la Costituzione c’è la possibilità che venga messa in discussione anche l’autonomia del Trentino. L’Alto Adige si difende con la questione della lingua e come tutte le minoranze di Europa non può essere toccata. Ma il Trentino quale tipo di specificità diversa può far giocare in questo momento? L’autonomia si tiene in piedi in presenza di un modello virtuoso di governo di un territorio complesso».