L'editoriale
mercoledì 12 Aprile, 2023
di Elena Pavan
Costa 36 dollari al pezzo, è bianca, si può usare subito appena consegnata, e in pochi giorni sembra abbia generato un giro di affari di almeno sette milioni di dollari (qualcuno dice perfino dieci). Che cos’è? No, non è una nuova droga – anzi, è qualcosa di totalmente legale! Si tratta della maglietta ufficiale che la campagna MAGA-Make America Great Again a sostegno della candidatura di Donald J. Trump alle prossime elezioni del 2024 ha stampato subito dopo la notizia, giovedì scorso, dell’incriminazione dell’ex-presidente in relazione a ben 34 capi di accusa. E no, per chi se lo stesse domandando, non c’è stata assunzione di sostanze stupefacenti dietro la scelta di stampare su questa maglietta una foto segnaletica (finta) di Trump accompagnata dalla scritta (fronte e retro) “not guilty” – non colpevole. È una vera e propria strategia di capitalizzazione che non è neppure così nuova per il team Trump, abbastanza avvezzo a trasformare tanto gli impicci quanto gli impeachment (due, per chi non lo ricorda) del tycoon americano in guadagno politico.
Il meccanismo è semplice: si diffondono via social e attraverso media di parte come Fox News storie che funzionano come una sorta di profezia che si autoadempie. Si racconta di avere grande consenso senza che questo sia necessariamente vero e si finisce per ottenere consenso. In passato, come fu per l’assalto di Capitol Hill, queste storie hanno intercettato un estremismo violento, razzista, sessista, praticamente cieco a ogni confronto con la realtà provocando un boato senza precedenti. Adesso, come forse il caso di queste magliette un po’ fa sospettare, sembra che queste storie non funzionino più così bene. Non esiste alcuna prova finanziaria di tutti questi milioni di dollari e, se pure esistesse, si avrebbe forse gioco facile a pensare che si tratti di bilanci falsi, visti i precedenti del capo.
Non sto dicendo che Trump qui negli Stati Uniti non abbia una base che lo sostiene. Ce l’ha eccome. L’ho vista spesso, da quando sono qui, anche perché tende ad esibirsi in modo abbastanza tracotante: passeggia in giro o si siede all’interno dei bar portando cappellini che dicono “Non criticatemi, ho votato Trump”; attacca sul retro di pick-up giganteschi sticker con un Trump sornione che ci regala due diti medi ben visibili mentre ci avvisa “Elezioni 2024: Tornerò”; oppure si ferma sul ciglio di una superstrada ipertrafficata, come m’è capitato di vedere la settimana scorsa, e passeggia sventolando la bandiera degli Stati Confederati indossando una maschera integrale di Trump e gridando “il Partito Democratico vi sta mettendo a tacere”. Non serve una chiamata in giudizio unica nella storia del Paese per vedere la base di Trump che si mobilita: quando lui chiama, la base risponde e giovedì scorso si è anche infervorata un po’, ma è stato più un fuoco di paglia che la rivolta collettiva che Trump si aspettava.
A ben guardare, si tratta di una base di dimensioni piuttosto ridotte, o comunque non sufficienti a garantire a Trump alcun successo presidenziale come diceva bene qualche settimana fa Alexander Burns su POLITICO. A conti fatti, dieci milioni di dollari sono meno di trecentomila magliette: non che la base trumpista coincida con chi compra magliette e cappellini, ma fare i calcoli a volte aiuta a ridimensionare un po’. Non si vince un’elezione presidenziale con gli irriducibili ma, soprattutto, se non si vincono le primarie. Sì, perché quello che spesso ci si dimentica di dire, in questi giorni, è che Trump sta certamente correndo per le presidenziali ma non è detto che sarà il candidato del Partito Repubblicano perché in Florida c’è un certo Ron DeSantis, un giovane governatore che le cronache italiane ignorano abbondantemente per ora, che nutre la stessa ambizione e rappresenta un’alternativa che non sembra dispiacere affatto ai Repubblicani stanchi, prima, della politica grezza e rozza di Trump e, ora, del suo cospirazionismo vittimistico.
Eppure, il sospetto che questa incriminazione multipla possa giovare a Trump c’è. Sul New York Times una decina di giorni fa Ross Douthat diceva che non è una questione di numeri, né tantomeno una questione di candidati, ma del messaggio che questa vicenda fa passare. Il trumpismo ha cementato una sfiducia totale nelle istituzioni, e se invece di essere la sventura del “povero” Trump questa dovesse diventare la sventura degli americani tutti allora non importa se il centro dell’attenzione è qualcuno che tutti, al di fuori della sua base, reputano semplicemente “unfit” – inadatto. Questa sarà la battaglia di tutti coloro che si sentono soggiogati e oppressi dal liberalismo istituzionale e, come ben afferma Douthat, “se vi interessa soprattutto il conflitto ideologico, non importa se non lo amate come lo amano i suoi veri sostenitori; dove sta Trump, lì dovete stare anche voi”.
Certo, Trump ci sta mettendo del suo per alienare da sé questo odio anti-establishment. Non c’è solo il pacco di incriminazioni per la falsificazione di bilanci e l’accusa che questi reati siano stati commessi come parte di una frode elettorale. C’è una giudice distrettuale a Foulton County, Fani Willis, che sta aspettando il momento buono per dar seguito alle accuse di interferenza con il voto del 2020 in Georgia. Ci sono altri giri di danari per pagare il silenzio di un portiere che sa troppo delle relazioni extraconiugali dell’ex-presidente, di un’altra amante oltre a Stormy Daniels… e ci sono le indagini di Capitol Hill. A guardarlo alzare il pugno verso i suoi sostenitori (ma c’erano anche curiosi e avversari, davanti al palazzo di giustizia a Manhattan), Trump sembra – o, forse, è – la caricatura di se stesso.
Non so bene come andrà la campagna elettorale – ogni previsione a questo punto è mera chiromanzia – né come andrà il processo per Trump. La prossima udienza, ammesso che ci sia, è prevista per dicembre e in mezzo c’è un balletto di carte e scatoloni di prove che è difficile da immaginare, e c’è pure una richiesta che verrà inviata quanto prima dalla difesa per un cambio di sede processuale – ché, si sa, Manhattan è un covo di persecuzione politica.
Quello che so, però, è che gli Stati Uniti si avviano alla prossima campagna elettorale forse un po’ svincolati da Trump ma senza essersi liberati trumpismo, e anche piuttosto delusi dall’inerzia dell’amministrazione Biden, che li lascia impoveriti e non tutela la loro salute, né il loro lavoro. Quello che so, è che lungo il muro al confine con il Messico costruito da Trump ma abbattuto da nessuno, circa otto giorni fa sono morti (o, forse, sarebbe meglio dire, sono stati lasciati bruciare vivi) trentotto migranti in un incendio divampato in un centro di detenzione. So che dodici uova al supermercato costano dieci dollari e il salario minimo federale è di 7,25 dollari – sei euro e sessanta centesimi. In inglese, stormy – il nome della donna da cui è partita l’incriminazione per Trump – significa “tempestoso”. Verrebbe proprio da dire “chi semina vento, raccoglie tempesta”. Per Trump, questo sarà un anno di ottimo raccolto. Forse però è meglio se ci prepariamo anche noi, ché l’America non è poi così lontana.
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