Volontariato

venerdì 9 Agosto, 2024

«In Albania ho visto l’amore di chi non ha nulla»

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La 22enne Viola Piffer racconta la sua esperienza nelle aree più povere del paese delle Aquile con il Centro missionario : «Non pensavo ci fosse tanta povertà così vicino, ma anche tanto calore»

La comunità di Lavis è nota per la forte vocazione al volontariato che da sempre contraddistingue la vita della borgata. Negli ultimi anni in particolare, molti sono i giovani che scelgono di spendersi per l’altro gratuitamente: fra loro la giovane, classe 2004, che in questi giorni e fino al 7 agosto si trova a Rrëshen, in Albania, per fare esperienza missionaria. Viola Piffer non è nuova al volontariato: all’attivo, infatti, ha quasi un decennio di animazione presso l’oratorio Don Brigà di Lavis, oltre all’impegno nell’associazionismo locale tra la mensa dei poveri, la realtà giovanile Lavision, Appm e Mandacarù. Nel 2023 non aveva esitato a partire per aiutare la popolazione emiliana colpita dal disastro dell’alluvione.
Di che progetto di tratta in Albania?
«È il culmine di un progetto avviato dal Centro Missionario di Trento: un percorso che da febbraio in poi ci ha fatti incontrare una volta al mese con i formatori e con gli altri giovani volontari, affrontando temi in preparazione a quella che viene chiamata “tentazione missionaria”, e che si è concretizzato poi il 25 luglio, quando siamo partite alla volta dell’Albania. Con me ci sono Anna Chiara Rizzoli, di Martignano, e Chiara Patriarca, una giovane udinese che studia a Trento».
Perché proprio l’Albania?
«La destinazione ci è stata affidata in base alla nostra disponibilità. Altri giovani sono stati mandati in Kenya, Brasile e Tanzania. Prima di partire siamo state messe in contatto con i padri somaschi presenti nella regione della Mirdita, a nord della capitale Tirana, i quali ci avevano spiegato in breve cosa avremmo dovuto aspettarci al nostro arrivo».
E cosa avete trovato?
«Una realtà molto diversa rispetto alla nostra, con una situazione di povertà molto accentuata. Allo stesso tempo, però, siamo state investite da un calore, un affetto e un’accoglienza che mai avremmo potuto immaginare. Appena ci vedono e capiscono che siamo italiane iniziano ad applaudire, conversano con noi, si assicurano che stiamo bene e che la nostra esperienza ci stia aiutando a crescere. Molti di loro hanno poco, vivono in condizioni economiche precarie e in parte questo è dovuto al regime comunista che è stato presente fino al ’91 e alle famiglie ha tolto molto».
A Rrëshen dove siete state affidate?
«Alloggiamo in una scuola professionale gestita dai padri somaschi: padre Umberto, padre Michele e padre Godwin. Loro si occupano della scuola, che con i suoi quattro indirizzi aiuta i giovani albanesi che giungono dai numerosi villaggi circostanti a formarsi e crescere. Alcuni di loro vengono anche ospitati nel convitto perché non esistono mezzi di trasporto e per tornare a casa impiegherebbero oltre due ore di cammino, su strade esclusivamente sterrate».
In cosa consiste la vostra missione?
«Visitiamo tutti i villaggi circostanti al capoluogo, insieme ai padri incontriamo le famiglie, all’occorrenza portiamo loro vestiti e viveri, arricchendoci ogni volta con storie di vita uniche che scelgono di condividere con noi. Ci sono alcuni villaggi che sono più sviluppati e hanno servizi propri, mentre altri sono situati in cima a delle montagne, con la popolazione che si aggira tra le 20 e le 30 famiglie. Proprio in quei villaggi si sta assistendo ad uno spopolamento progressivo: molti vivono di pastorizia, lontani dal centro, e vivono di quello che riescono a procurarsi, altri migrano verso il sud, dove le città sono più sviluppate».
Cosa l’ha colpita di più?
«Il fatto che l’Albania è un paese molto vicino al nostro: si pensa che la povertà sia un concetto distante da noi, eppure è proprio qui accanto. Certo, magari è una povertà che si manifesta in altri modi, a livello di possibilità o di servizi, eppure anche se hanno poco, si spendono donandoci tutto ciò che possono. Sin dal primo giorno avevamo il cuore pieno, la loro è una gentilezza disinteressata alla quale non siamo abituate. È come avere una casa in terra straniera: cogliamo come un dono tutto questo e la fiducia che ripongono nei nostri confronti ogni volta che si aprono con noi. Siamo partite cercando di non dare nulla per scontato, dalle strutture ai servizi: nelle cose semplici abbiamo trovato un nuovo modo per toccare la pienezza che solo esperienze di questo tipo possono trasmettere».
Cosa l’ha spinta a partire?
«Avevo sentito parlare molto di queste possibilità offerte dal Centro Missionario. Mi piace aiutare, dare una mano come posso: in questo caso desideravo vedere una realtà molto vicina a noi, arricchendo il mio bagaglio di esperienze e lasciando qualcosa anche di me alle famiglie che abbiamo aiutato. Sto vivendo questo viaggio affinché possa essere un’esperienza per la vita, per vedere con nuovi occhi la quotidianità che forse troppe volte do per scontata nel comfort della mia vita. Stiamo cogliendo l’essenziale, ed è una cosa che un po’ avevamo perso».
Una questione di mettersi a servizio insomma.
«Sì, avere le mani in pasta, avvicinarsi al mondo missionario e lasciarsi stupire dalla bontà di uno sconosciuto, che senza sapere niente di te ti accoglie nella sua casa, ti fa mangiare il suo cibo e ti fa sentire uno di famiglia. Tutto questo è impagabile».