l'intervista
giovedì 1 Agosto, 2024
di Sara Alouani
La cittadinanza italiana è un merito? Secondo la premier Giorgia Meloni sì. Eppure, in Italia vige lo ius sanguinis e quindi, paradossalmente, una persona con un trisavolo italiano può richiedere la cittadinanza italiana senza nemmeno conoscere la lingua mentre chi cresce in Italia, in moltissimi casi, non la può ottenere. A parlarcene è Claudio Calabrese, professore e scrittore meranese che lo scorso giugno ha pubblicato «Di fuga in fuga» (Edizioni Praxis), un romanzo che racconta le difficoltà di Rayan, ragazzo marocchino, nell’ottenere la cittadinanza italiana. Mentre la sorella, nata dalla relazione della madre con il nuovo compagno italiano, nasce italiana.
Professor Calabrese, da cosa nasce il suo interesse per questa tematica?
«Sono un insegnante da 24 anni e ho avuto occasione di approcciarmi con realtà variegate tra cui ragazzi e ragazze di seconda generazione, figli di immigrati. La cosa che più mi preme sottolineare è che queste persone hanno subito l’immigrazione, non l’hanno scelta. Sono venute in Italia a due o tre anni e non necessariamente sono nate qui. Sono diventate italiane, in Alto Adige parlano anche il tedesco e addirittura il dialetto locale. Sono perfettamente inserite nella società e spesso hanno pochissimi riferimenti nel Paese d’origine. Magari l’hanno visto una volta o due. Talvolta non possiamo nemmeno dire che questi ragazzi siano musulmani, o almeno, si professano tali ma poi non tutti seguono alla lettera i dogmi».
Sono ragazzi e ragazze che vengono definiti stranieri anche nel loro Paese d’origine. Sono «gli italiani»…
Certo, e questo limbo indotto è una sorta di violenza. Per me è drammatico vedere che questi ragazzi crescono da immigrati e non da europei. Acquisiscono un’identità indefinita e mi chiedo, a chi devono fare riferimento? Vivono con un permesso di soggiorno ma chi sono veramente? Questo deve farci riflettere soprattutto in questo momento molto delicato dove ci ritroviamo con la migrazione che aumenta e moltissimi minori non accompagnati. È una questione che ci riguarda. Tutti».
Perché ha deciso di raccontare la storia di Rayan?
«Purtroppo, c’è molta superficialità e io ho voluto descrivere questo ragazzo con la stessa leggerezza con cui si descriverebbe un ragazzo italiano. Con i suoi alti e bassi, errori e conquiste. Noi siamo spinti a guardare i figli di immigrati con pregiudizio, sempre con l’occhio attento. Per esempio, loro non possono fare gli stessi errori che fa un loro coetaneo italiano perché verrebbero immediatamente giudicati mentre a un nostro ragazzino diremmo “Vabbè, è lo stesso. Può capitare”. Lo stesso vale se questi ragazzi di seconda generazione eccellono in qualcosa: bisogna sempre rimarcare che hanno origini straniere, mettendo in secondo piano il loro traguardo».
Nel racconto lei esaspera la questione della cittadinanza contrapponendo Rayan (marocchino) alla sorella nata dall’unione della madre con un italiano e che quindi, per diritto, nasce italiana.
«È un elemento molto importante. Anastasia nasce con il passaporto italiano grazie al papà. Papà che farà di tutto per naturalizzare la compagna Halima (mamma di Rayan, ndr) ma nessuno penserà al ragazzo che “in qualche modo si arrangerà da solo”. La figura che prevale è proprio la sorella che ha goduto di un diritto che Rayan non ha. E sappiamo quanto la legislazione italiana sia stringente sulla cittadinanza, anche perché Rayan è nato in Marocco».
Da anni si è dibattuto sullo ius soli e sullo ius culturae senza mai arrivare a una svolta. Nel 2015 il disegno di legge naufragò al Senato. Al momento in Italia vige lo ius sanguinis. Qual è per lei la soluzione più giusta?
«Il percorso dell’obbligo svolto con successo credo sia più che sufficiente per accertare l’integrazione per concedere la cittadinanza. È una questione di inclusione e la scuola, per antonomasia, è inclusiva. Questo vale per tutte le persone, da quelle con disturbi dell’apprendimento a quelle con disabilità a persone che hanno subito l’immigrazione».
Penso a quegli studenti che magari devono rinunciare alla gita in Inghilterra perché non hanno il passaporto italiano…
«Da docente, per me è moralmente inaccettabile fare distinzioni. Non può accadere che un ragazzino debba rinunciare alla gita. Non esiste. In primis, siamo esseri umani con pari dignità».
Baby-gang e criminalità, crede che le seconde generazioni siano più vulnerabili e quindi più soggette a essere avvicinate da queste realtà?
«Una persona giovane, in crescita, è sempre vulnerabile e rischia sempre di finire in questi giri se non ha un sostegno da parte di istituzioni sociali e una rete pronta ad accoglierla. C’è il rischio, ma è un rischio che vale per tutti, che siano italiani o con un background migratorio. Non è concepibile che ancora oggi si facciano distinzioni di questo genere in base alla cittadinanza. Non siamo nell’Ottocento. Non si può dire “tu sei meno destinato o più destinato a commettere reati”. Questi sono slogan molto facili e, ahimè, frutto di una questione, come quella dell’immigrazione, trattata in modo grossolano e superficiale».
La premier Giorgia Meloni ha dichiarato più volte che «la cittadinanza non si regala ma va meritata». Lei cosa risponde?
«La cittadinanza non è un merito. Noi, purtroppo, ancora non abbiamo fatto il salto di qualità e non vediamo la persona per quello che è. E questo, per me, è un punto cruciale. Ci vorrebbero più cultura, più informazione e voglia di approfondire, di confrontarsi. Il Trentino ha un humus positivo con la Facoltà di Sociologia, di Lettere, la Fondazione Bruno Kessler che hanno arricchito per decenni la nostra regione. Lo stesso vescovo Tisi spinge sempre al dialogo interreligioso e all’apertura nei confronti dell’altro. È nel momento in cui io ho paura di ascoltare chi è diverso da me che questo diventa il mio problema».
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