Il personaggio
domenica 1 Settembre, 2024
di Lorenzo Fabiano
Proprio vero che un «cult» è per sempre. Dopo 41 anni, «Sapore di mare» torna al cinema. Dal 29 agosto la commedia dei fratelli Vanzina, che nel 1983 sbancò i botteghini italiani, è di nuovo sul grande schermo in versione restaurata in 4K. Torna il mito della Versilia degli anni Sessanta, tornano i marchesini Pucci, i fratelli Carraro, i cuori inquieti di Marina e Selvaggia, il burbero bagnino Morino. «Una grande notizia – commenta Jerry Calà, protagonista di quel successo che avviò un fortunatissimo filone nella storia della commedia all’italiana -. Ce lo si poteva aspettare dopo il successo riscosso lo scorso Natale dalla riproposta di “Vacanze di Natale”; è una notizia che mi dà una grande gioia perché ti rendi conto di aver fatto dei film così amati da essere restaurati e riprogrammati dopo quarant’anni. È una bella soddisfazione».
Calà, e il sapore del suo mare qual è?
«Quello della Sardegna, dove vado da sempre a immergermi nel suo meraviglioso mare col gommone alla scoperta di calette incantate».
Quarant’anni fa, nel 1984 lei era tal Peo Colombo in «Vacanze in America». Ma come nascevano questi personaggi?
«Erano tutti personaggi presi dalla realtà, che magari i fratelli Vanzina avevano pure incontrato e conosciuto. Nei loro film raccontavano un po’ del loro vissuto e questi personaggi scaturivano dalla loro infanzia, dalle loro vacanze, dai ricordi di scuola. Il motivo del grande successo di questi film stava anche nel fatto che erano ispirati a personaggi veri. Erano delle fotografie di un momento, di un’epoca, di una situazione».
Lei un simbolo degli anni Ottanta, della joie de vivre di quel decennio.
«Quest’anno ho girato in tournée per decine di piazze con migliaia di persone, e ho sentito un po’ il polso del pubblico. In questi anni un po’ bui tra pandemia e guerra, secondo me la gente ha una grande voglia di respirare quella stessa leggerezza che c’era negli anni Ottanta».
L’estate di tre anni fa lei ha festeggiato il settantesimo compleanno e mezzo secolo di carriera nell’Arena della sua Verona, la città dove tutto è cominciato. Dev’essere stata proprio una gran bella emozione…
«Le posso dire che senza alcun dubbio è stata la serata più bella della mia vita. Io che da ragazzino andavo a chiedere autografi ai cantanti del Cantagiro fuori dall’Arena, mi sono ritrovato sul palco dell’Arena con ospiti proprio quei cantanti come Maurizio Vandelli e Shel Shapiro. Per me è stato un sogno, e aver riempito l’Arena in un momento come quello, eravamo in pandemia, è stata una gran soddisfazione. C’erano tutti gli amici a me più cari, dalla mia grande amica Mara Venier ai Gatti di Vicolo Miracoli, da Massimo Boldi a Ezio Greggio, e molti altri. Una serata meravigliosa».
Una rimpatriata di vecchi cari amici.
«Sì. Varrebbe la pena di riproporla per i miei ottant’anni; facciamo ai 75 dai, anticipiamo… (ride, ndr)».
La storia coi Gatti ebbe inizio al liceo classico Scipione Maffei di Verona dove vi conosceste. Lei come se la cavava a scuola?
«In matematica ero scarsissimo, in altre materie così e così, ma in greco e latino prendevo 8».
Beh, mica un dettaglio al liceo classico…
«Eppure, mi bocciavano lo stesso. Ai professori non stavo tanto simpatico perché facevo parte della compagnia teatrale della scuola. Ci mettevano un po’ i bastoni tra le gambe».
La vostra «Verona Beat» la cantano oggi allo stadio Bentegodi alle partite del Verona. Che effetto le fa?
«Anche quella è una bella soddisfazione. Bello aver fatto una canzone che viene presa a rappresentanza di una squadra, di una tifoseria e di una città. Ne siamo molto fieri, soprattutto Umberto (Smaila, ndr) che ha scritto la musica. Insomma, vuol dire che questi quattro vecchietti tengono il tempo e vengono ancora molto apprezzati».
Con Umberto Smaila, Nini Salerno e Franco Oppini siete rimasti grandi amici, nonostante abbiate poi preso strade diverse.
«Certo, e ogni tanto facciamo delle rimpatriate, delle cene fra di noi dove ci ammazziamo dal ridere. Recentemente ci siamo ritrovati a Verona per una reunion allo spettacolo di Umberto al Teatro Romano. Il pubblico apprezza e ci dimostra un grande affetto».
Lei un mattatore della commedia all’italiana; ma nel 1993 ha anche ricevuto il premio di migliore attore per il Gotha della Critica Italiana al Festival internazionale del cinema di Berlino per «Diario di un vizio» di Marco Ferreri: «Un giorno potrai raccontare a tuo figlio di aver fatto un film così», le dissero.
«Fu Werner Herzog a dirmelo. Venni invitato a una cena al ristorante all’Orso a Berlino; quando arrivai si alzarono tutti in piedi, mi fecero un applauso e mi consegnarono questo premio scusandosi anche un pochino per come mi avevano bistrattato con le critiche per le commedie. Fu una bella rivincita. Poi, però, quando ho ripreso a fare le commedie hanno continuato a trattarmi come prima».
Perché ha smesso di fare i cinepanettoni?
«Me lo domando anch’io… Però, dai, ho fatto delle belle esperienze, come appunto quella del film di Ferreri che mi ha dato l’abbrivio per cominciare a fare il regista, una cosa che mi piace tantissimo».
Un incidente stradale gravissimo nel 1994, un infarto lo scorso mese di marzo; che cosa ha tratto da quei momenti?
«Che nella vita le cose più importanti sono la famiglia, gli amici, stare bene e avere rispetto della gente; che siamo fortunati a fare il lavoro che facciamo; che bisogna sapersi accontentare. A volte ci facciamo prendere dalla smania del successo, ma la vita bisogna prenderla con un po’ più di calma e viverla appieno. È una sola e ce la dobbiamo tenere cara».
Che papà si sente di essere?
«Molto apprensivo. Con mio figlio ho un ottimo rapporto, di stima e rispetto. Non sono il papà amicone, perché quello non va bene, e penso di fare abbastanza bene il mio il mio mestiere di padre. Abbiamo un sacco di passioni comuni, ci guardiamo i film insieme, Johnny sta studiando alla scuola di cinema di Milano, vuole diventare regista e sceneggiatore».
Sua moglie Bettina?
«Fondamentale. Mi ha reso padre, cosa che quando ero uno scavezzacollo mai avrei pensato di diventare. Con la sua presenza ha riempito e realizzato la mia vita. Ha inoltre un grandissimo pregio: il rispetto del mio lavoro. Quando dici “vado a lavorare” tanti si mettono a ridere e ti rispondono “macché a lavorare, tu ti vai divertire”, ma non è così. Lei sa che è un lavoro duro e l’ha sempre rispettato».
A giugno è pure stato a Roma dal papa.
«Una mattinata meravigliosa. Facevo parte dei 100 comici scelti in tutto il mondo. Tra le righe, il papa si è sbilanciato dicendo che il politicamente corretto lo ha un po’ stufato e che i comici vanno lasciati liberi di dire le loro battute senza che nessuno si debba offendere perché il senso dell’umorismo è un dono di Dio e bisogna pregare di averlo».
«Libidine!», «Prooova!», «Capito?», sono espressioni del suo marchio di fabbrica: come le venivano?
«Quella che non mi abbandona mai è “Libidine!”; ancora oggi me la chiedono quando faccio gli spettacoli e io la faccio dire a migliaia di persone tutti insieme in coro. È una parola magica, un bel messaggio per dirti di assaporare il bello della vita».
Come nacque?
«Durante le riprese del film con Bud Spencer “Bomber”. Il regista, Michele Lupo, mi chiese di inventarmi tre momenti in un crescendo durante un incontro di pugilato. A ogni pugno io dovevo dire una cosa, sempre in crescendo per tre volte; mi venne in mente “libidine” che faceva parte del gergo quando eravamo al Derby a Milano, il gergo milanese della notte, dove tutto era un susseguo di “libidine, libidine!”. Al primo pugno dissi “libidine!”, al secondo “doppia libidine!” e al terzo me ne uscii con “libidine coi fiocchi!” che francamente non so come mi venne fuori».
Il futuro cosa riserva?
«Sto lavorando a uno spettacolo teatrale e sto collaborando a un nuovo film, una nuova sceneggiatura a cui tengo molto e che è molto bella. Spero di realizzarli entrambi».
Viva la vita, Jerry!
«Sempre, assolutamente!».