L'editoriale
mercoledì 21 Dicembre, 2022
di Claudio Ferlan
Si avvicina il Natale, ma quella che i cristiani festeggiano è una data storicamente incerta. Non è assolutamente provato, infatti, che Gesù sia nato proprio il 25 dicembre. Vediamo qualche esempio nella letteratura e nella prassi cristiane per dare concretezza all’affermazione. Clemente Alessandrino (morto intorno al 215) scriveva che alcuni fedeli ritenevano la data di nascita del Messia fosse il 20 aprile, altri il 20 maggio. Giovanni Cassiano (vissuto tra III e IV secolo) nel raccontare la storia delle chiese egiziane nei secoli precedenti al proprio specificava come a quelle latitudini si optasse per il 6 gennaio. Ancora oggi buona parte delle chiese ortodosse ricorda la natività il 7 gennaio perché segue un vecchio calendario, quello giuliano.
Si chiama così poiché fu elaborato dall’astronomo greco Sosigene di Alessandria e promulgato da Giulio Cesare nel 46 avanti Cristo. Sosigene era certo assai in gamba, ma non al punto di evitare nei propri calcoli un avanzo annuale di undici minuti, che andavano in qualche modo ricollocati. Sembra poco, ma se passano 1.638 anni quegli undici minuti diventano 18.018 e ne bastano 1.440 per fare un giorno. Della questione si prese carico papa Gregorio XIII, che grazie all’aiuto di una squadra di astronomi riuscì a promulgare nel 1562 (1.638 anni dopo Giulio Cesare, appunto) un nuovo calendario, quello gregoriano con gli anni bisestili seguito oggi in buona parte del globo.
Torniamo alla chiesa ortodossa, che nel frattempo (1054, Grande Scisma) si era staccata da quella romana e della decisione di un pontefice non si fidava poi tanto. Decise così di rifiutare la modifica per restare legata al calendario giuliano. Con il trascorrere dei secoli le differenze aumentarono e in seguito a un’accesa conferenza tenutasi nel 1923 alcune chiese ortodosse optarono per i calcoli avvalorati da Gregorio (cambiando però gli anni bisestili), altre per quelli convalidati da Giulio Cesare. Per loro il Natale si celebra allora il 7 gennaio. Insomma, non c’è stata e non c’è uniformità.
Davvero è rilevante la data da iscrivere su di un’ipotetica carta d’identità di Gesù di Nazareth? Probabilmente no, potrebbe importare invece quando e perché la maggioranza optò per il 25 dicembre. Lo fece alla fine del IV secolo. Lo sappiamo grazie ai contemporanei e a chi quei tempi studiò, per fare solo due esempi presi dalle testimonianze di illustri dottori della chiesa ecco i nomi di Giovanni Crisostomo, morto nel 407 e Gregorio Nisseno, che ci ha lasciati intorno al 395. E la fine del IV secolo coincide con l’affermazione del cristianesimo quale religione di stato, per decisione di Teodosio (imperatore romano tra 379 e 395) introdotta dal provvedimento di Costantino (313) che garantì libertà di culto a chi credeva in Gesù. Il solstizio d’inverno era all’epoca celebrato a Roma per glorificare una delle divinità più potenti del pantheon pagano, il Sole invincibile (Sol invictus). Per segnare la propria centralità, i cristiani decisero di sostituire Cristo al sole.
Nulla di nuovo, intendiamoci, perché quando una religione ambisce a prendere il posto di un’altra si pone inevitabilmente la domanda di come riuscire ad affermare la propria identità. Le risposte possibili sono molteplici: si può rifiutare completamente il contesto in cui ci si vuole proporre (ardua impresa), oppure si può cercare di integrarvisi, con tutte le soluzioni che si collocano tra i due estremi della negazione e dell’adesione (più agevole fatica). Ed è proprio in questa vasta gamma di scelte che si colloca la storia del succedersi delle religioni in determinati contesti di spazio e di tempo, in difficile equilibrio tra l’adattamento e la presa di distanza, realizzato talvolta con la forza della persuasione, talaltra con la forza e basta. L’esempio del Sole invincibile è un buon esempio, perché rivela una evidente commistione tra presa di distanza (mai più celebrare il sole!) e adattamento (festeggiamo il Natale quando festeggiavate il sole!).
Ogni religione contiene in sé elementi di altre tradizioni, non solo sacre ma anche letterarie e più in generale culturali. È ovvio mettere in luce le origini ebraiche della religione cristiana, meno i vincoli con il mondo romano o quelli con la Grecia classica. Poniamoci la domanda che si è proposto ai nostri tempi il teologo e studioso delle religioni Perry Schmidt-Leukel ragionando sul cristianesimo all’epoca della riforma luterana (XVI secolo): «Possiamo davvero pensare che i poemi omerici non avessero influenza su intere generazioni che li studiavano, per secoli, nelle scuole dell’Europa cristiana?». La domanda è retorica, la risposta è «no, non possiamo».
In definitiva, per meglio comprendere il mondo in cui viviamo è probabilmente opportuno ricordare che le religioni non sono dei monoliti immutabili, divengono, come la storia diviene. Cambiano, si muovono, si adeguano, leggono il tempo in cui sono, con maggiori o minori capacità di interpretarlo, senza dimenticare che per vincere la partita della visibilità vale anche attingere dall’immaginario culturale costruito da chi c’era prima di loro. Buon Natale, allora, indipendentemente dalle date segnate in rosso sul calendario.
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Con questo editoriale Claudio Ferlan, ricercatore dell’Istituto storico italo-germanico (Isig) della Fbk e storico del cristianesimo, comincia la sua collaborazione con «il T».
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