L'editoriale

lunedì 13 Novembre, 2023

La delega dei migranti

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Nei giorni scorsi, l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha sottoscritto con il primo ministro Edi Rama l’intesa per realizzare «due strutture di ingresso e accoglienza temporanea degli immigrati salvati in mare». Gli aspetti su cui riflettere dovrebbero partire da una considerazione che lascia delle ombre sulle capacità del nostro Paese e dell’Europa nella gestione dei flussi di umanità che attraversano il Mediterraneo

«La cooperazione tra le parti deve concretizzarsi nella predisposizione di campi di accoglienza temporanei in Libia, sotto l’esclusivo controllo del Ministero dell’Interno libico, in attesa del rimpatrio o del rientro volontario nei paesi di origine. Inoltre, le parti debbono impegnarsi affinché i paesi di origine accettino i propri cittadini oppure debbono sottoscrivere con i Paesi di origine accordi in merito. Senza che tali azioni intacchino il tessuto sociale libico o l’equilibrio demografico del Paese o la situazione economica e le condizioni di sicurezza dei cittadini libici».

È quanto prevedeva il memorandum firmato nel febbraio del 2017 dall’allora presidente del Consiglio dei Ministri italiano Paolo Gentiloni, dal capo del governo di riconciliazione nazionale dello Stato della Libia, riconosciuto dall’Unione europea e dall’Italia, Fayez Mustapa Serraj per dare una risposta all’emergenza rappresentata dagli sbarchi sulle coste italiane di migranti provenienti dalla Libia.

Nei giorni scorsi, l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha sottoscritto con il primo ministro Edi Rama l’intesa per realizzare «due strutture di ingresso e accoglienza temporanea degli immigrati salvati in mare, che potranno accogliere fino a tremila persone, 39mila in un anno, per espletare celermente le procedure di trattazione delle domande di asilo o eventuale rimpatrio». L’accordo, che ha un prezzo fissato in 16,5 milioni di euro all’anno e durata quinquennale, prevede poi una serie di prescrizioni che indicano come all’interno dei campi siano da rispettare le norme italiane e come all’esterno del perimetro sia in vigore la legge albanese.

In questi giorni di grande dibattito, i commenti di parte non sono mancati e, spesso, sono risultati privi di ogni considerazione di quanto prevede il diritto internazionale. Gli aspetti su cui riflettere, in realtà, dovrebbero partire da una considerazione che lascia delle ombre sulle capacità del nostro Paese e dell’Europa nella gestione dei flussi di umanità che attraversano il Mediterraneo. La questione, come evidenziato dai due passaggi iniziali che riguardano Libia e Albania, mette in luce come sia un governo guidato dal centrosinistra, sia un governo di centrodestra abbiano cercato di percorrere la strada di una delega ad altri Stati per la soluzione di parte del problema migranti. Di fatto l’ammissione di un’incapacità di gestione sul nostro territorio. Già, perché in entrambi i casi i governi interessati hanno cercato di presentare all’opinione pubblica come soluzione degli accordi che, nel migliore dei casi, possono dare risposte solo parziali. Ad essere trasferiti verso l’Albania, ad esempio, saranno solo le persone che, dirette verso la nostra penisola, saranno intercettate in mare.

Dando per scontata la necessità di un maggiore buonsenso e di maggiore sensibilità umana contro la creazione di campi oltre confine, è quindi evidente che non si tratta di una soluzione, perché l’Italia deve farsi comunque carico di accogliere un quantitativo altissimo (ma non il più alto) di donne e uomini disperati e non che cercano di arrivare in Europa per dare una personale risposta ad una crisi epocale che sta cambiando il mondo intero. E, come è chiaro da molto tempo, l’Italia non può dare una risposta da sola al fenomeno, dando per scontata la sordità dell’Unione europea. Fa specie, infatti, che i primi commenti arrivati da Bruxelles sull’accordo tra Italia e Albania siano stati improntati soprattutto alla verifica della fattibilità del progetto in punta di diritto. Le prese di posizione politiche su questa vicenda sono di fatto mancate, dando un allarmante segnale di quanto le istituzioni, a qualunque livello, siano deboli nella capacità di affrontare il tema dell’accoglienza dei migranti. Usando un paradosso, qualsiasi Paese delegherebbe ad un altro la messa in pratica delle proprie politiche economiche? Storicamente è accaduto e accade quando uno Stato è soverchiato da uno dominante o quando deve ammettere di non essere in grado di gestire una parte delle proprie attività ed è costretto a sottoporsi ad un regime di tutela.
L’Italia e l’Europa preferiscono questa strada? Sia pure con grande difficoltà, non si possono rilanciare politiche di accoglienza all’altezza, specie dal punto di vista umanitario? La scelta potrebbe anche diventare quella di puntare su rimpatri programmati, ma almeno finché le persone sono sul suolo europeo, tutti i diritti e i trattamenti previsti dalle leggi e dall’umana sensibilità devono essere loro garantiti senza deleghe a Paesi terzi.

Non sarà facile, perché la ricerca di una scorciatoia in questo campo è diffusa. Basti pensare che lo scorso anno il governo inglese ha stretto un accordo con il Ruanda per il trasferimento in Africa dei migranti che avevano richiesto asilo in Gran Bretagna. Qualche anno prima, lo stesso governo ruandese aveva sottoscritto un’intesa simile con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Gentiloni e Meloni, insomma, non sono soli.