La protesta
martedì 27 Febbraio, 2024
di Alberto Folgheraiter
È cieco dalla nascita, eppure a cinque anni il papà gli mise in mano una bicicletta e gli disse semplicemente: «Vai a trovare la zia». E lui è andato. Dalla zia, tanto per cominciare, e poi, cresciuto e maturo, per le strade del mondo, dall’Africa agli Stati Uniti. Il più delle volte accompagnato ma non sempre. Perché Giuliano Beltrami, 70 anni il prossimo 15 ottobre, è un viaggiatore entusiasta: per diletto e per professione.
Vive a Darzo, in valle del Chiese, dove è nato sotto il segno della Bilancia e dove ha fatto il professore di lettere nelle scuole medie, l’insegnante di musica, mille altri mestieri compreso quello di giornalista attento ai problemi e sensibile ai più svantaggiati. Una professione che gli riempie le giornate da pensionato insoddisfatto: di essere in pensione.
Scrive per giornali e riviste da una vita, fa il direttore editoriale di “Judicaria”, la rivista dell’omonimo Centro studi, ma ciò che più lo intriga è passare per rompiscatole. Una passione nella quale mette impegno ma sempre e solo in difesa dei diritti dei più deboli o delle minoranze.
Adesso è impegnato in una battaglia con i poteri forti perché, da qualche anno, la Provincia autonoma di Trento ha diminuito il contributo alle spese di viaggio di chi è costretto a muoversi con taxi o automobili a noleggio con conducente. I ciechi, come lui, tanto per cominciare.
Che cosa vuol dire, prof. Beltrami, essere disabile della vista?
«Vuol dire che hai gran parte dell’autonomia possibile ma non tutta».
In quale contesto?
«Fin quando non arriveranno le automobili che si muovono senza conducente, per noi viaggiare sarà sempre un ostacolo».
Per il resto?
«Va tutto bene perché oggi la tecnologia ti offre: dal computer alla bilancia che parla, al contagocce che dà i numeri, all’orologio tattile. C’è tutta la tecnologia che desideri al tuo servizio».
Meno l’auto-guida.
«Appunto. E questo vuol dire dipendere dagli altri».
Solo in questo?
«Per quanto mi riguarda io sono stato fortunato. Ho una moglie, Maria Teresa, che mi ha scarrozzato per centinaia di migliaia di chilometri. Su e giù per il Trentino, quando ero presidente di “Italia Nostra”; quando ero impegnato in Consolida, una cooperativa sociale, ecc. Le ho fatto fare veramente dei salti mortali».
Autista e segretaria a tempo pieno.
«Quando non c’era lo scanner, per tradurre, come diciamo noi, il testo dal “nero” al Braille, il sistema di scrittura che consente di leggere con i polpastrelli della mano, dovevo ricorrere a mia moglie. La quale mi leggeva libri, giornali, comunicati stampa, i testi più vari».
Veniamo ai trasporti.
«In Trentino, soprattutto per chi abita nell’estrema periferia della provincia, ci sono certo i servizi pubblici. Ma per uno come me che fa una vita piuttosto disordinata (collaboro con giornali, ho riunioni, assemblee da seguire, persone da incontrare) gli impegni spesso non coincidono con gli orari dei mezzi del trasporto pubblico».
Insomma, per tornare a casa è inevitabile far ricorso agli amici o al taxi.
«Infatti, devo arrangiarmi con il trasporto privato».
Non c’è un supporto dall’Ente Pubblico?
«C’è la legge n. 1 del 1991 sulle barriere architettoniche. Legge importante perché aveva istituito il trasporto e l’accompagnamento dei disabili. A seguito di questa legge sono sorte cooperative come La Ruota, La Casa, La Mano, La Strada. L’evoluzione si è avuta con “Muoversi”, la formula riservata ai soggetti accreditati».
Chi sono?
«Il CTA (Consorzio Trentino Autotrasportatori), i Radiotaxi, e alcune cooperative sociali».
Quanti sono i chilometri che si possono usufruire, pagati dalla Provincia?
«Dipende dalle esigenze di ciascuno dei circa 800 utenti. In principio i trasferimenti erano gratis, poi abbiamo sollecitato, in anni lontani, gli assessori competenti a modificare la normativa».
In quale misura?
«Nel far pagare una quota a seconda del reddito di chi usufruiva del servizio. Perché sono convinto che se offri una prestazione gratuita la sfruttano tutti, anche chi non ne ha bisogno, e questo fa implodere il sistema».
All’inizio il servizio era gratuito e a chilometraggio illimitato. Adesso?
«Fino a qualche anno fa, pagando 2.600 euro, usufruivo delle facilitazioni per complessivi 13 mila chilometri. Poi, di anno in anno, con l’aumento dei costi e degli utenti, senza modificare il budget la Provincia ha diminuito il contributo a 8 mila chilometri-anno».
Non sono pochi.
«Sembrano tanti ma con la mia attività finisco il plafond a settembre».
Quanto le costa il trasporto, superato il tetto garantito da “Muoversi”?
«C’è un accordo con qualche vettore che mi chiede 1 euro a chilometro. Da Darzo a Trento e ritorno fanno 150 euro. Ma io sono un caso anomalo».
Se abbiamo capito bene lei ne fa una battaglia, più che personale, per i disabili in generale?
«Ho sollecitato la Provincia a rivedere lo stanziamento per il servizio “Muoversi”. Hanno trovato il denaro per campi da calcio e concerti, per banchetti e cotillon, nelle pieghe del bilancio non possono recuperare le briciole?».
Con più di mezza giunta provinciale di origine giudicariese, 4 su 7, non le sarà difficile farsi ascoltare.
«Non sarei così certo. Ho già detto in Provincia che è facile togliere ai “senza voce” quali siamo noi disabili. E poi sono convinto che gli assessori non dovrebbero guardare al proprio bacino elettorale ma indossare la giacca dell’intero Trentino».
Lei è cieco dalla nascita. Oggi si parla di conquiste della medicina anche nel campo della vista. È in arrivo la retina artificiale. Se ci fosse la possibilità si sottoporrebbe a un intervento per ottenere la vista?
«Come dico agli amici, sono costretto a descrivere il mondo senza vederlo. Non vorrei, vedendolo, restare profondamente deluso. Ci scherzo, è chiaro. Tuttavia credo che non si debba mai forzare la realtà e che si debba convivere con la propria situazione personale».
E cercare motivi di soddisfazione. Lei sembra felice, infatti.
«Lo sono e se ho qualche preoccupazione non è data dalla mancanza della vista. Vedo in giro ragazzi che si vergognano di essere ciechi, di portare il bastone bianco. Questo è un limite, culturale soprattutto. Negli anni Settanta ci siamo battuti per l’abolizione degli Istituti e la sostituzione con la scuola pubblica. Non sono pentito ma credo che non abbiamo fatto un grande affare».
Perché?
«Oggi, i disabili sono tutti inseriti nella scuola, ma non vengono integrati».