Il personaggio
domenica 5 Febbraio, 2023
di Anna Maria Eccli
Flaminia Carbonaro è nata a Modica il 23 febbraio 1951 e nella bella città siciliana rimane fino ai 18 anni. La sua storia si è intreccerà presto con quella della nostra città, visto che è stata medico responsabile del Centro di Diabetologia dell’Ospedale di Rovereto per quasi 30 anni.
Pittrice, scultrice, è molto amata per i modi gentili, eredità di una vita passata accanto ai pazienti, di una infanzia trascorsa in un ambiente familiare affettuoso e accudente, e forse anche del dolore, che la vita riserva a tutti, ma con pesa diversa. A lei toccò perdere presto un marito che amava profondamente e di quell’amore tranciato, di cui però restava l’adorata figlia Giulia, oggi madre dei suoi biondissimi nipotini, forse parlano le sue stesse sculture. Terre cotte, in argilla refrattaria, ceramiche raku, bronzi, tele, opere che nascono nel mentre placano l’ansia del vivere e del veder morire, opere che sembrano richiamare «Le città invisibili» di Italo Calvino con quell’invocazione finale: l’inferno è tra noi, possiamo abituarcisi o «riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno». Passione ereditata in famiglia, quella di entrare con le dita nella materia, dal padre fotografo «ma anche falegname, pittore e scultore».
Dalla manipolazione di questa figlia nascono sculture a volte ironiche, quando riducono le forme femminili a maschera, sempre indicative, comunque, di un’idea particolare del femminile, radice di epos, archetipo di accoglienza, sviluppo, parola, protezione.
Dottoressa, come fu che da Modica approdò a Rovereto?
«Credo che così abbia voluto il destino. A 18 anni decisi di lasciare la Sicilia per Padova dove mi laureai in Medicina nel 1978, specializzandomi in Diabetologia, specialità nata all’interno di Gerontologia e Malattie del ricambio. Per 2 anni rimasi all’Università come medico volontario, ma ero stanca di non guadagnare, di non potermi sposare con Franco. Anche lui, padovano laureato in Scienze Forestali, era senza lavoro e ormai pensavamo di cercarlo entrambi a Modica. Destino volle che un giorno, per caso, mi trovassi a rispondere al telefono nella guardiola della clinica in cui prestavo sevizio; seppi così di un posto vacante in Geriatria a Rovereto. Presi la palla al balzo, convinta di restare qui sei mesi da inserire nel curriculum, invece mi sono fermata per sempre. Nel frattempo anche Franco aveva risposto all’inserzione di una ditta veneziana che cercava esperti nel settore del legno. Dove gli fecero il colloquio conoscitivo? A Venezia, a Treviso, o a Padova? No a Lavis! È stato proprio il destino a chiamarci entrambi qua».
Vi aspettavano pochi anni di felicità, però.
«Sì, davvero pochi. Franco è morto tre anni dopo, portato via in due mesi da un linfoma. Lui era splendido, era veramente la parte che mi completava. Quando successe mamma e papà insistettero per farmi tornare in Sicilia, ma io sentivo che il mio posto ormai era qua. Sentivo attorno a me un calore tanto grande, una solidarietà tanto profonda nel mio ambiente di lavoro da farmi capire che in quel momento io avevo due ancore di salvezza: Giulia, la nostra bambina piccolissima, aveva 7 mesi, e il mio lavoro».
Oggi si sente parlare dei veleni che deprimono l’ambiente sanitario, all’epoca era diverso?
«Io ho vissuto in un ambiente sereno, generoso, umanamente evoluto. Geriatria all’epoca era un reparto nuovo, eravamo tutti giovani, medici, paramedici, infermieri. Siamo tutti partiti assieme, entusiasti, senza spirito da rampanti, con un primario bravo come Mansoldo, stimolante, un vero clinico che ci ha formati. Non un amministratore, come siamo abituati a vedere oggi».
Forse la propensione alla Medicina l’ha ereditata dal nonno infermiere, ma quella all’arte l’ha ereditata da papà.
«Sì, papà faceva il fotografo di professione, ma era un artista, dipingeva e scolpiva. Io ho sempre disegnato, ma a cimentarmi per davvero ho iniziato nel ‘96, col corso di disegno dal vero di Paola Barlassina Schmitt. Fulminante, poi, fu l’incontro con lo scultore arcense Renato Ischia, maestro che nel 2005 mi iniziò al modellamento dell’argilla. Allora mi si è aperto un mondo».
Dopo il ciclo dei “corpi abitati” a cosa sta lavorando attualmente?
«Da Modica mi hanno chiesto sculture dedicate al mare, elemento che separa e che accoglie. Poi voglio omaggiare Quasimodo ispirandomi all’idea di “vita doppia”. Quasimodo viveva al Nord, ma sognava il Sud. Una storia che sento mia. La mia fortuna è stata rimettere radici qui e sentirmi appagata nel lavoro».
C’è un fil rouge tra l’essere artista e l’essere medico?
«Penso siano dimensioni complementari. Anche nel lavoro di medico si è creativi. Come formatrice in diabetologia pastrocchiavo parecchio nel costruire strumenti divulgativi chiari e accattivanti e da capo scout trasfondevo l’arte di insegnare giocando. Per un medico l’arte è una valvola di scarico, è pesante stare sempre a contatto con il dolore. Quando è morto Franco ho pensato di non poter più fare il medico. Invece ce l’ho fatta. Vivere la morte da vicino a 32 anni insegna a stare accanto ai pazienti umanamente. Ho terminato la professione con un’esperienza all’Hospice di Mori. È stata grandiosa e penso che tutti i medici dovrebbero farla. È completamente diversa: non pensi più a guarire il paziente a tutti i costi, ma ad accompagnarlo alla fine. Quello è il momento in cui ti devi confrontare con il tuo senso di impotenza, ti devi spogliare di tutto il tuo sapere, perché non serve più a niente. In principio mi aggrappavo inconsciamente al camice, come maschera dietro cui proteggermi, finché la psicologa dell’Hospice non me lo fece notare. Solo allora lo tolsi».
L’argilla, la materia che più amata.
«Amo lavorare l’argilla per la sua estrema duttilità, a volte parto senza avere in testa un’idea precisa, allora inizio a manipolarla e, piano piano, emergono forme che sorprendono anche me. Vivo la sensazione che l’idea abbia una vita propria e che la mia mano ne sia la semplice esecutrice. Altre volte, però, l’idea affiora nel dormiveglia del mattino. Allora mi illudo di essere io a condurre il gioco, ma strada facendo è lei, l’argilla, a trasportarmi dove vuole».
Lei è stata anche vicina alla Chiesa Valdese.
«Sì, anche quello è un pezzo della mia vita, molto importante. Ero amica di Florestana Sfredda, la predicatrice locale che amministrava i sacramenti nella saletta valdese, e mamma mi rivelò che anche suo nonno era un evangelico metodista, fondatore della comunità di Scicli. Ecco, anche in questo mi chiedo se non ci sia una sorta di completamento del cerchio voluto dal destino. Non sono valdese, ma simpatizzante sì. Sento profondamente la religiosità laica degli evangelici, priva di gerarchie, che accoglie tutti, gay, separati e incerti».