l'intervista
giovedì 28 Marzo, 2024
di Simone Casciano
Già dichiarare che «la società esiste» è un’affermazione forte, in controtendenza rispetto ad una società descritta, nel senso comune, sempre più come atomizzata e individualista. Eppure, è proprio questo, La società esiste, il titolo dell’ultimo saggio di Giorgia Serughetti, ricercatrice in filosofia politica all’Università Bicocca di Milano. Un’affermazione che ribalta la celebre dichiarazione di Margaret Thatcher, madre del neoliberismo moderno, che nel 1987 disse: «Non esiste nessuna società. Esistono uomini e donne singoli e famiglie». Un’affermazione che secondo Serughetti mistifica una realtà evidente, fatta di reti solidali spontanee e radicate, che raccontano la vitalità della nostra società. La ricercatrice spiega come il suo libro sia nato proprio osservando la reazione della società alle crisi recenti: l’ambiente, la guerra e prima ancora il Covid.
Serughetti, già dire che «la società esiste» è una notizia di per sé?
«Esatto, si tratta in un certo senso di un rovesciamento ironico della citazione di Thatcher e dall’altra dell’affermazione di un principio. L’intento del mio libro è quello di svelare la resistenza, le forme di solidarietà che esistono tra le persone e che rivelano un bisogno e una predisposizione alla cooperazione volta al benessere della comunità. Questo tipo di rivelazione mi è parso di poterla ancorare innanzitutto all’esperienza della pandemia. Sono partita riprendendo un’affermazione di Boris Johnson, il più improbabile critico di Thatcher, perché ne era invece un epigono politico. Il primo ministro inglese, nel 2020, aveva inizialmente adottato un modo negativo di affrontare la pandemia. Fu lui stesso poi, in una conversione di emergenza, a filmarsi mentre diceva: “credo che il Covid ci abbia insegnato una cosa, che la società esiste”. E quando lo dice afferma che la società è fondamentale per la tenuta complessiva delle nostre comunità, come il sistema sanitario nazionale. Quando Thatcher diceva che la società non esiste, era innanzitutto un attacco al welfare state, all’idea di un rapporto Stato-cittadini che vedesse l’assunzione di una responsabilità collettiva per far fronte alle ingiustizie e alle disuguaglianze. L’idea di Thatcher e dei neoliberisti era che questa responsabilità collettiva fosse falsa e che ognuno dovesse invece provvedere da sé al proprio benessere. Nella pandemia abbiamo visto la riemersione di quella che per molti era già una realtà: forme di solidarietà che si generano dal basso e l’importanza di strutture di sostegno al benessere, siano essi il sistema sanitario, il welfare state o sussidi di emergenza. Fattori, che nel loro insieme, smentiscono chi dipinge una realtà fatta di individui isolati e questo ha anche delle implicazioni più grandi».
Cioè?
«Riconoscere l’esistenza della società significa riconoscere anche i fenomeni che la dividono: classismo, razzismo e sessismo per citare i più gravi. Cose che l’individuo non può contrastare da sole, ma che, essendo problemi sistemici della società nel suo insieme, solo da essa possono essere affrontati».
La società esiste, eppure non partecipa alla politica. L’affluenza sembra calare a ogni tornata elettorale.
«C’è un’evidente difficoltà a dare energia alla politica rappresentativa, ma non alla politica tout court. Perché quelle esperienze politiche dirette, che mettono al centro il mutualismo, sono invece in grado di attirare e mobilitare le persone. C’è un’evidente differenza tra il fare politica in prima persona e l’aderire a un’offerta politica che arriva dai partiti. Così, mentre l’affluenza e la partecipazione nei partiti cala, nella società si assiste alla rinascita della politica diretta, attraverso movimenti che sono portatori di alcune delle più importanti novità anche concettuali. Nel mio libro, dedico un capitolo all’analisi di tre movimenti significativi e di grande partecipazione giovanile. I Fridays for Future, e i movimenti ambientalisti in generale, il movimento femminista e infine il movimento operaio, ma non solo, attorno all’ex-Gkn di Firenze che presenta un nuovo modo di intraprendere lotte di lavoro. Sono movimenti che ci dicono due cose. La prima è che tra le persone c’è un desiderio di politica che si oppone alla depoliticizzazione e alla perdita di democrazia nelle nostre società, frutto di una mentalità neoliberista e individualista che è invece volta a frammentare ciò che si dovrebbe unire. Dall’altra queste esperienze recenti rivelano profonde novità anche rispetto alla storia recente dei movimenti».
In che senso?
«Nel passato recente, i movimenti erano caratterizzati dalla difesa di un’identità sempre più piccola e quindi esclusiva. Erano lotte spesso circoscritte ad un’unica questione. Questi movimenti nuovi, invece, sono consci di questi rischi identitari che portano all’isolamento e costruiscono mobilitazioni larghe, dove la parola chiave è la convergenza di soggetti e esperienze. Sono fatti di persone consce dei legami tra la questione ambientale e il lavoro, e tra il lavoro e la questione di genero o della razza. Movimenti che hanno capito che queste questioni vanno combattute simultaneamente e quindi da gruppi più grandi, che non si chiudono nei loro recinti identitari e lottano assieme. Un esempio di questo è proprio il progetto di rilancio dell’ex-Gkn come fabbrica, ma in chiave ambientale, oppure il movimento femminista che si dice anche antirazzista. O ancora i Fridays che hanno messo a fuoco la verità secondo cui non c’è giustizia ambientale senza giustizia sociale».
Quello che ha spiegato è il concetto di intersezionalità delle lotte. È questo che manca nella politica e in particolare nel centrosinistra?
«Questo è sicuramente un limite forte. C’è un evidente scollamento e quindi non c’è interesse all’interlocuzione da una parte e dall’altra. Però è proprio dentro questo orizzonte che dobbiamo stare, io non credo che la politica democratica esista solo al di fuori della rappresentanza, credo che siano vitali queste forme di partecipazione non convenzionale, ma anche che poi questa domanda di democrazia debba trovare un’offerta politica all’altezza nelle istituzioni. Preoccupa molto questa cinghia di trasmissione interrotta che non permette di portare questa linfa vitale nell’agenda politica dei partiti».
In queste reti solidali che ha conosciuto vede segnali di stanchezza?
«Mi pare che sia un sentire molto comune, anche nelle realtà più forti. Di certo, più forte è la supplenza che devono portare allo stato sociale, maggiore è il rischio dell’esaurimento. L’importante è non compiacersi nel ruolo di supplenza, pretendere che la solidarietà sia articolata su due versanti quella tra le persone e poi contro uno stato di cose che vede lo stato ritrarsi dai suoi compiti di welfare state».
Nel futuro cosa vede?
«È un tema che tocco nel libro, io penso che debba essere fatta un’opera di rigenerazione della politica. Partire dal restituire a tutti l’idea che il futuro non è una questione privata, ma una dimensione collettiva. Perché il futuro è fatto di problemi che ci riguardano tutti e a cui possiamo dare risposta solo collettivamente. Con questo libro vorrei che si recuperasse la convinzione che un’alternativa esiste e che abbiamo, come società, il potere di plasmare la realtà. Le esperienze nel “qui e ora” sono palestre, laboratori del domani. Oggi già esiste questo futuro diverso e più bello, sono un po’ come luci nel buio».