domenica 9 Aprile, 2023
di Jessica Pellegrino
Il nostro viaggio nel tempo alla scoperta dei luoghi scomparsi, disponibile in podcast sul nostro portale, fa tappa nell’Alto Garda. Lì dove giacciono maestose le Marocche di Dro e dove si narra che nella Città di Kas vivesse una grande e opulenta comunità che fu distrutta a seguito di grandi frane staccatesi dal Monte Brento e dal Monte Casale. A ricordarle ancora oggi, è il paesaggio quasi lunare che caratterizza quest’area. La leggenda di Kas racconta di questo grande abitato dove le persone vivevano nella lussuria, almeno fino a quando, una «punizione divina» pose fine ai loro eccessi, agendo attraverso la frana che seppellì la città sotto le Marocche. Ed il termine Marocche deriva proprio da una parola dialettale trentina maròc ovvero blocco di roccia. Un’area che oggi è di interesse del Parco Fluviale del Sarca ed è da lì che il nostro racconto prende inizio. Sul sito del Parco si narra infatti che ad anticipare la frana ci fu un improvviso alito di vento. Un vento insolito, sinistro, quasi spettrale. Un vento a cui seguì l’arrivo di una grande nuvola che levatasi dal Brento, nonostante fosse ancora giorno, nascose il Bondone. Passarono solo pochi istanti e polvere e sassi ricoprirono quella che prima era una pianura. A rimanere immobile ci fu solo il Brento con quella ferita aperta sul fianco illuminato nuovamente da un sole già alto. Lì dove si stavano già formando le prime tracce del lago di Cavedine calò la sera dell’ultimo giorno della mitica città di Kas. Un territorio molto suggestivo del Trentino sud-occidentale che da molti anni è accompagnato da questa leggenda, come spiega lo storico Aldo Gottardi. «Nel Basso Sarca è tradizione che un tempo fosse esistita la popolosa città di Kas che fu sepolta da una delle ultime frane che hanno sconvolto il fondovalle. Di questa fantomatica città non esistevano fonti di alcun tipo se non la tradizione popolare. Non una mappa o un toponimo, nessun documento né tanto meno immagini. Eppure nel 1907 durante i lavori di scavo di un canale sotterraneo per una delle condotte della centrale idroelettrica di Fies, a una quarantina di metri sotto le rocce delle Marocche, fu ritrovato un tegolone in cotto di epoca romana e resti di ceneri, residui di un focolare o di un forno». Le Marocche di Dro sono infatti la frana più grande dell’intero arco alpino con una superficie di oltre 13 kmq e un volume di materiale franato superiore ai mille milioni di metri cubi di roccia. Per datare questi eventi sono stati effettuati degli studi che utilizzano l’isotopo radioattivo cloro-36.
«Sappiamo – prosegue Avanzini – che la frana più antica si è staccata dopo lo scioglimento del grande ghiacciaio della Sarca, nella preistoria più lontana. La frana del monte S. Abbondio si è staccata circa 3000 anni fa e poi la frana di Kas datata al 1080 d. C.». La datazione del 1080 d.C. corrisponde a due eventi importanti il grande terremoto del 1046, con epicentro la media Valle dell’Adige, e il più noto terremoto di Verona del 1117, classificato nel nono grado della Scala Mercalli. Un luogo che confina ed immerge la Centrale di Fies: una vecchia centrale idroelettrica trasformata in un centro di ricerca per le pratiche performative contemporanee che, spiega il presidente Dino Sommadossi ancora oggi fa rivivere questa leggenda raccontandola ai tanti artisti che la raggiungono. Un distacco grazie a cui si sono anche create le Pareti Zebrate che, commenta il sindaco di Dro, Claudio Mimiola «ad oggi sono molto utilizzate anche per l’arrampicata, quindi sicuramente un paesaggio storico, culturale, ma anche sportivo. La Città di Kas è una leggenda che intreccia storia e geografia. Per la nostra comunità è una leggenda che ha momenti ciclici. Ai ragazzini della mia generazione ha lasciato un momento di scalpore e di entusiasmo, ma soprattutto di curiosità».
opere
di Redazione
Pronti a partire i lavori a fianco delle gallerie delle Limniadi e a quello dei Titani. Il presidente Fugatti: «Massimo impegno sulla sicurezza. Accolte le modifiche progettuali per migliorare la compatibilità con il paesaggio»