L'Intervista
sabato 4 Febbraio, 2023
di Simone Casciano
È una nuova rivoluzione copernicana del pensiero quella che Andrea Staid, professore di antropologia all’università di Genova e alla Naba di Milano, propone nel suo ultimo libro Essere natura, presentato a Trento alla libreria Due Punti. Così come Immanuel Kant ponendo l’uomo al centro del processo conoscitivo, e non l’oggetto, ha cambiato il modo in cui comprendiamo il mondo, così Staid propone di fare un passo in più, con un cambio di prospettiva altrettanto radicale. Non più una separazione tra uomo e ambiente, tra cultura e natura, ma al contrario un punto di vista sinergico e ecologico in cui l’uomo va pensato all’interno dell’ambiente e in cui la cultura è il prodotto naturale dell’azione umana. Facendo un veloce excursus nella storia della filosofia il rapporto tra uomo e natura è spesso stato descritto in due modi. Il primo è quello che lo psicologo Ugo Morelli, in dialogo con l’autore, ha definito «la ferita narcisistica dell’umano». Ossia l’idea che la natura fosse al servizio dell’uomo. Una risorsa da cui attingere per il proprio esclusivo benessere. A questa letteratura se n’è accompagnata un’altra di segno uguale e opposto. Quella che vede nello stato di natura un elemento ostile all’uomo, da cui esso deve fuggire per rifugiarsi nello stato di cultura. Non in contrasto, ma in superamento rispetto ad entrambe le prospettive vorrebbe inserirsi il libro di Andrea Staid.
È questo il senso del suo ultimo libro, Essere Natura?
«Si, diciamo che è il punto di arrivo delle riflessioni che ho portato avanti in questi anni. È un libro che cerca di spiegare come la divisione tra uomo e ambiente, tra natura e cultura, non abbia senso né da un punto di vista scientifico né filosofico. Per farlo ho cercato, attraverso l’antropologia, di presentare punti di vista differenti rispetto a quello occidentale tradizionale. Io in particolare mi sono occupato delle popolazioni del sud est asiatico, ma ci sono anche i contributi di antropologi che hanno studiato nativi dell’Amazzonia, delle Hawaii e gli aborigeni australiani».
E che risultati emergono
«Che la locuzione, Antropocene, con cui indichiamo l’uomo (Antropos) come il fattore determinante dell’attuale condizione del pianeta è sbagliata. Non è l’operato dell’uomo in sé a causare inquinamento e surriscaldamento globale, ma un preciso modo di intendere il rapporto dell’uomo con l’ambiente: ovvero quello occidentale, colonialista ed estrattivista. Questo è il senso più vero del colonialismo: l’oggettificazione dell’ambiente e la sua successiva mercificazione. Il pianeta e le sue parti ridotte al solo ruolo di risorse da ottenere. Un concetto spiegato molto bene anche nel libro La maledizione della noce moscata (Neri Pozza 2022) di Amitav Ghosh. Le esperienze di altre popolazioni ci dimostrano che l’uomo è in grado di avere un rapporto più equilibrato, a tratti anche simbiotico, con la natura. È una scelta consapevole quella di adottare invece un modello insostenibile nel lungo periodo. Ecco allora che più che di antropocene dovremmo parlare di “capitolocene” o “occidontocene”. Non si può comprendere la situazione attuale senza indagare i processi colonialisti ed estrattivisti che l’hanno influenzata».
Quindi secondo lei non si può separare natura e cultura?
«Esatto, la prima parte del libro si concentra proprio su quello. Sul grande abbaglio di chi credeva che andassero separate, quando questa cesura non esiste. La natura stessa per l’essere umano non può che essere culturale. Nel senso che esiste solo nel modo in cui noi la pensiamo e la interpretiamo. È un prodotto costruito culturalmente e il nostro rapporto con essa dipende dalla nostra cultura. Quindi non solo le due non possono essere separate, ma il nostro rapporto con esse è profondamente influenzato dai nostri presupposti culturali. È quindi fondamentale esplicitarli per poterli comprendere e capire come modificare questo nostro rapporto»
Essere natura prova anche a spiegare come possiamo invertire la rotta?
«Si e ci tengo molto. Nel libro c’è un capitolo, intitolato “disertori della crescita”, che racconta proprio questo. Premetto che secondo me l’ecologia o è politica o non esiste. Il capitalismo green non funziona, è un diversivo per continuare nello stesso solco. Non basta aggiungere le parole bio o sostenibile agli stessi processi estrattivi ed economici per cambiare qualcosa. Invece la prima cosa da fare è guardare al mondo naturale, fatto di piante, animali e minerali, come soggetti e non oggetti. Non uno spazio da sfruttare, nemmeno da museificare, ma con cui costruire relazioni. Dobbiamo parlare di soggettività del vivente, del non umano. Introdurre il concetto di ecocidio. Esistono poi tutta una serie di azioni quotidiane corrette che possiamo adottare. Vivere più lentamente, consumare meno ed evitare gli sprechi. Certo poi ci sono i grandi inquinatori però sia chiaro. Essi non possono diventare l’alibi dei nostri comportamenti sbagliati. Allo stesso tempo però non si devono addossare alle persone tutte le responsabilità. Bisogna andare di pari passo».
Ecco appunto con i grandi inquinatori che si fa?
«Quello che mi sembra stia funzionando sono azioni di contrasto quotidiane. Penso agli attivisti, come quelli di Ultima Generazione. Giovani e meno giovani il cui grido, la cui disobbedienza non violenta, costruisce simboli di lotta importanti ai grandi inquinatori e a chi fa affari con loro. Così si mandano i messaggi giusti e mi sembra che siano accolti sempre più positivamente».
Ma quindi dobbiamo cambiare il nostro modo di vivere? Fare delle rinunce?
«No ecco questo ci tengo a sottolinearlo. La rinuncia al dogma della crescita costante non deve essere visto come qualcosa di triste. Ora il messaggio sembra essere: “Lo dobbiamo fare perché sennò ci estinguiamo”. No. Lo facciamo perché così staremo meglio. Mangeremo prodotti più sani, vivremo con più lentezza. Saremo in grado di costruire una società in cui si tessono di nuovo relazioni, in cui conosciamo i nostri vicini, in cui ci si scambiano doni e si organizzano incontri. Non è vero che un cambio di rotta significhi rinuncia e tristezza, chi lo dice e chi si oppone al cambiamento non lo fa perché ci rende più poveri, ma probabilmente perché non vuole perdere i propri profitti».
Staid quello che lei propone richiede un grande sforzo immaginativo
«Ed è proprio questo il cardine del libro, il potere dell’immaginazione. Se non immaginiamo una società diversa non andiamo da nessuna parte. Viviamo in un periodo storico intrappolato nel presente, invece dobbiamo avere la forza di immaginare un futuro differente. Perché se prima non lo pensiamo non saremo mai in grado di realizzarlo»