editoriale
giovedì 25 Aprile, 2024
di Simone Casalini
In Trentino sono rimasti in vita quattro partigiani/e. È l’ultimo avamposto della memoria del Ventennio fascista e della sua Resistenza, quella che poi condusse alla Liberazione – che festeggiamo oggi e ogni giorno – e alla democrazia post-bellica. Ogni pensiero e costruzione politica dopo le barbarie fascista e nazista è stata intrisa dell’anticorpo alla ripetizione. In molti in questi giorni, a partire dal presidente della Provincia al sindaco di Trento, hanno ricordato che l’Autonomia nasce dall’antifascismo, dalla necessità di sanare quelle ferite e ricostruire un assetto di pace. È l’essenza dell’Accordo De Gasperi-Gruber. Non c’è nessuna forzatura ideologica, ma solo una stretta adesione alla realtà.
Il nostro avamposto della memoria viaggia tra i 95 e i 102 anni. È una trasmissione carica di valori, ma che ovviamente viene erosa dal tempo e dall’allontanarsi della storia. Chi è nato negli anni Sessanta o Settanta ha un ricordo ancora molto vicino di quella tragedia – mediato da genitori e nonni -, le generazioni successive lo hanno più allentato. Quelle prossime a noi non lo hanno più come racconto di famiglia, come sottofondo comunitario. Ma si devono affidare prima di tutto al loro senso civico, alla responsabilità politica verso gli altri e la società. Per questo la Liberazione a cui ci approssimiamo è più importante, per certi versi, di trent’anni fa. Perché, se non la viviamo rischia di essere «museificata», di rimanere un oggetto di studio senza un’anima che la muove nel presente, di strapparsi tra i venti autoritari che continuano comunque a circolare in forme e direzioni diverse rispetto al passato.
Il dibattito di queste ore – da Trento a Roma – riporta l’impressione che siamo lontani dall’aver trovato una sintonia sul significato storico e politico della Liberazione anche se la convergenza nell’arco costituzionale non è ridotta (da Sinistra italiana/Verdi a una parte consistente della Lega). Fratelli d’Italia evade spesso l’argomento. Al di là di qualche nostalgico neofascista, oggettivamente una minoranza che, come tale, ripropone così la sua presenza nella Repubblica dal 1945 ad oggi e il risentimento, la maggior parte della rappresentanza e della classe dirigente proviene da altri lidi politici come per tutti i partiti che passano in pochi mesi dal 4 al 25%. Quindi, la loro è una posizione tattica. Mi si vede di più se non ci sono. Insieme ad una sottile polemica contro la sinistra e la sua volontà di egemonia sul 25 aprile. Poi c’è un desiderio di normalizzazione: sgonfiare le celebrazioni per rendere la Liberazione un passaggio qualsiasi della vita repubblicana. Una terza posizione crescente è quella che si professa «afascista», cioè che non prende posizione sul regime mussoliniano e non si dichiara antifascista.
Da qualsiasi punto di vista lo si osservi è un processo insidioso perché ha come punto di caduta finale l’indifferenza. La Resistenza è stata un’esperienza di lotta plurale a cui hanno contribuito più culture. E proprio per questo è una matrice che più storie politiche possono rivendicare. Se qualcuno non condivide il tentativo di egemonizzarlo dovrebbe essere nel corteo per protestare la sua idea di liberazione. E soprattutto chi ha incarichi istituzionali ha una responsabilità aggiuntiva che a volte impone anche di rinunciare alla semplificazione.
Qualche analista ha anche osservato che l’antifascismo non mobilita più consenso. La campagna elettorale delle politiche del 2022 lo testimonierebbe, il Pd aveva puntato molto su una polarizzazione che non c’è stata. Oggi l’elettorato, come esito di un profondo cambiamento della società, non vota seguendo le faglie degli anni Sessanta o Settanta. Ma è difficile affermare con precisione se l’antifascismo sia davvero così laterale nei valori del Paese, magari eroso da un nuovo nazionalismo. Di sicuro l’antifascismo e i valori della Liberazione non generano cittadinanza se non sanno reinterpretare tutti i tempi in cui transitano. Se non sanno attualizzare il messaggio e la lotta dirigendole alle nuove emergenze di libertà. Se non sanno mettere a tema la differenza come elemento fondante della società e quindi rileggendo in profondità l’esperienza coloniale e decoloniale su cui abbiamo ancora molti inciampi, e non solo di lessico. Aimé Césaire nel suo celebre «Discorso sul colonialismo» affermava – ed è una riflessione aperta – che ciò che non si perdonava a Hitler non era «il crimine in sé, il crimine contro l’uomo, l’umiliazione dell’uomo in quanto tale, ma il crimine contro l’uomo bianco».
La libertà, poi, è una prerogativa e un esercizio che pone continui interrogativi a seconda dei contesti storici, politici, culturali, sociali. Affermare che siamo liberi rischia di essere una tautologia o una forma retorica se non viviamo quella libertà declinandola nella vita quotidiana e ricercandone sempre il significato.
L'editoriale
di Simone Casciano
I promotori puntano a superare la soglia di 8.400 votanti, quelli che si recarono alle urne per le provinciali del 2023. Il successo nelle urne rischia di diventare un problema per la giunta provinciale