L'intervista

sabato 22 Aprile, 2023

«La montagna non è un museo. Uomo e selvatici devono convivere»

di

Lo scrittore Righetto: «Nulla di scomposto nella corsa di Andrea Papi. Chi vive la pianura non comprende a pieno questo territorio e i suoi abitanti»
Matteo Righetto

La sua immagine del profilo WhatsApp è la stessa della copertina del romanzo che Guanda pubblicò nel 2013: il profilo di un orso. Sì, dieci anni fa Matteo Righetto si imponeva come una delle voci più interessanti della letteratura italiana. Lo faceva con «La pelle dell’orso» che diventò anche film con Marco Paolini. L’illustrazione di Guido Scarabottolo – un orso tutto nero – lo accompagna ancora oggi. Dieci anni dopo il padovano Matteo Righetto è testimone particolare dello tsunami che ha investito il Trentino nel pomeriggio di mercoledì 5 aprile, quando l’orso Ji4 ha ucciso un giovane uomo, Andrea Papi, lungo un sentiero nei boschi di Caldes, in val di Sole, ad una manciata di metri da casa sua.

La pelle dell’orso, la pelle di un uomo. Da dove cominciare, Matteo Righetto?
«Questo è un tema che merita anzitutto rispetto. Un profondo rispetto che deve necessariamente partire dalla tragedia umana. Nessuno parlerebbe oggi dell’orso se non ci fosse stato un giovane uomo finito sotto le sue grinfie. Dunque, prima di ogni altra cosa soffro e comprendo con profondissimo rispetto il dolore della sua famiglia».

Cosa risponderebbe a chi, specie nel web, accusa Andrea Papi di aver «invaso» il territorio dell’orso?
«In affermazioni simili trovo sbagliato il concetto di fondo, quello che sottende una polarizzazione della questione ambientale: la società civile e antropica da una parte e il wilderness, il mondo selvatico dall’altra. Secondo il mio modesto parere, è un’idea assolutamente insensata, poiché la risposta ai problemi ambientali deve essere legata a una sapiente gestione delle interrelazioni sistemiche tra l’ambiente naturale e il paesaggio antropico, che è l’esatto contrario dell’abbandono. La montagna non è un museo. Rigoni Stern diceva metaforicamente che il bosco va curato come un giardino. L’uomo ha il dovere morale di farsi custode di questo immenso patrimonio naturale. Nulla nel comportamento del giovane Andrea Papi richiama l’idea di un utente del bosco scomposto o invadente come invece sono certi turisti irrispettosi. Stava semplicemente correndo, era a casa sua. Chi non vive in montagna o chi la ama dalla pianura, dalla tastiera di un computer o da un attico milanese non comprende che la montagna è da sempre anche della gente di montagna. Nei boschi possiamo trovare runners, ma anche boscaioli, camminatori, fungaioli, raccoglitori, birdwatchers e chi passeggia. Ai margini dei boschi possiamo incontrare agricoltori, apicoltori, pastori, operai forestali… La comunità montana ha da sempre un rapporto quotidiano e un dialogo esistenziale incessante con il bosco e questo, oltre ad essere meraviglioso e del tutto naturale, è pure un fatto ecologista ante litteram. Secondo costoro cosa dovrebbe fare, la gente di montagna? Abbandonare la propria casa e i propri boschi in nome di un inselvatichimento di ritorno? Al contrario! È più ragionevole, io credo, che si cerchino dei punti di equilibrio. In sostanza i montanari devono capire che la biodiversità è fondamentale anche per la loro stessa qualità della vita, e i cultori del wilderness devono capire che la montagna è viva grazie a chi ci vive. E in montagna ci sono anche giovani e studenti, insegnanti, medici, infermieri… Non so se mi spiego».

Non fa una grinza. Ma nel bosco ci sono anche orsi e lupi…
«Certo. Una società ecologista punta, per capirci, tanto a uno sviluppo che renda sostenibili, vivibili, e quindi migliori le nostre città, quanto ad avere appunto una relazione più equilibrata con il bosco. Vivere la montagna vuol dire abitarla, vuol dire puntare ad una ripresa anche demografica di certe zone. In questo Paese abbiamo sviluppato città e periferie invivibili e, contestualmente abbiamo abbandonato borghi montani di una bellezza incantevole, luoghi che potrebbero essere recuperati in nome della qualità della vita. Vivere la montagna comporta un tipo di esistenza che ha un ovvio contatto con la natura. Negare questo è tipico di chi non conosce la montagna».

Lei conosce bene il Trentino e in Trentino sono ambientati alcuni dei suoi romanzi. Cosa vorrebbe dire uno scrittore «nella natura» ai trentini, oggi?
«Che l’errore più grande che potrebbero fare è quello di elaborare una visione manichea della questione orso. Come gli ultras da curva: da un lato chi sta ideologicamente con l’orso come se si trattasse di un innocuo orsacchiotto disneyano, dall’altro chi lo vorrebbe eliminare. I progetti legati alla biodiversità, compreso questo, sono complessi ma preziosi per tutti, il problema è la loro gestione».

È complicato immettere un grande carnivoro che mangia 40 kg di cibo ogni giorno in un’area dove la locale economia si basa su turismo, frutteti, alveareti.
«Penso che il Trentino non possa permettersi uno squilibrio tra un numero eccessivo di animali selvatici, alcuni potenzialmente pericolosi e l’antropizzazione del territorio unita al turismo di massa. Non siamo in Canada, in Finlandia o nei Carpazi dove gli spazi sono amplissimi».

Vuol dire che nella reintroduzione dell’orso si è sbagliato?
«Assolutamente no. Però alla luce dei fatti, dei numeri e dei dati che leggo relativamente agli obiettivi del progetto specifico, credo che qualcosa non sia andato come si ipotizzava. Se è vero che gli orsi presenti sono oggi più di cento, e se è vero che negli anni ci sono stati numerosissimi incontri e diverse aggressioni che potevano avere un esito mortale, è evidente che il problema è stato prima sottovalutato e poi, all’italiana, procrastinato».

Che fare, dunque? Sparare agli orsi?
«No, non è eliminando gli orsi che affrontiamo al meglio la cosa. Non possiamo abbatterli. Sarebbe una risposta antropocentrica e non ecologista. E, si badi, lo dice uno che non consiglierebbe mai a un animale di farsi difendere da un animalista. Certo, se l’aggressività di un singolo soggetto problematico è conclamata e reiterata allora questo soggetto va isolato. Ma i pericoli vengono anche da altri fattori… Il rischio in natura è accettato dai montanari: ogni anno ci sono tante morti nei boschi per punture di vespe, o casi di encefalite per le zecche. Molti di più delle vittime di aggressioni da parte di orsi. Ma è normale che ritrovarsi di fronte un orso spaventi più che incontrare una vipera. Quindi dobbiamo rispettare queste paure. E senza deridere, da Roma o Milano o Venezia, chi vive in montagna».

Ma la paura dell’orso è qualcosa di diverso?
«Vero. Non solo per la mole, la forza, la velocità dell’animale, ma anche perché l’orso rappresenta le nostre paure e angosce ataviche, fin dalla notte dei tempi. Da un punto di vista culturale e arcaico l’orso rappresenta il male inconsapevole che ci portiamo dentro. Nel mio romanzo rappresentava il capro espiatorio di tutti i mali: eliminando lui, eliminiamo qualunque nostro problema».

Ancora, che fare, dunque?
«Farla finita con la politica dello scaricabarile, francamente insopportabile. Poi, visto che di equilibrio si tratta, prendere atto che questo equilibrio si è rotto, e non certo per colpa degli orsi o dei lupi. I primi sono stressati, catapultati in mezzo Trentino – di là dall’Adige, ad est, non ve ne è uno – e portati a confidenze un tempo impensabili. Quanto ai lupi, Trentino a parte, perché in tutta Italia si avvicinano sempre più ai centri abitati? Perché trovano cibo abbandonato e situazioni di degrado nelle periferie urbane. Il lupo non teme più l’uomo e prende a sua volta una confidenza che non promette nulla di buono».

Dieci anni dopo «La pelle dell’orso», romanzo d’avventura e di formazione, avrebbe immaginato che il Trentino sarebbe stato catapultato in una simile vicenda?
«No, non pensavo potesse accadere. È una vicenda che mi turba, un fatto così inaspettato – seppure avvisaglie non fossero mancate – è lacerante. Non tutto ciò che è imprevedibile è anche impensabile. Ma individuare la soluzione nell’eliminazione o la deportazione di massa degli orsi è una follia che non commento».

Potrebbe pesare, nella vicenda, la prossima competizione elettorale in Trentino?
«Non scopro certamente l’acqua calda se dico che da tempo la politica non vive di progettualità e grandi visioni bensì di sondaggi che assecondano la pancia dell’elettorato. Ci si dimentica sempre che le soluzioni facili finiscono per danneggiare irrimediabilmente sia la montagna che i montanari, sia la natura che gli esseri umani».

Possibili le ripercussioni sul turismo?
«Spero di no. Ma la retorica sensazionalistica è tale che molti turisti certamente saranno più titubanti».

Lei stesso, con i suoi romanzi, è la conferma che l’orso è animale letterario per eccellenza.
«Certo. Nel mio romanzo c’è mito, epica, formazione, avventura, ma soprattutto l’allegoria di una comunità terrorizzata alla ricerca di un capro espiatorio la cui morte possa sollevare qualcun altro dalle proprie responsabilità.