Sfruttamento

mercoledì 3 Luglio, 2024

La piaga del caporalato anche in Vallagarina: a processo i gestori di un’azienda che produce carta e cartone

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Nei guai, oltre a una trentina, sei pakistani che sfruttavano i propri connazionali: pagati 4 euro all’ora, con turni da 13, e costretti a restituire gran parte degli stipendi

Sulla busta paga, di cui tra l’altro non ricevevano copia, i loro stipendi variavano dai mille ai 1800 euro, ma erano costretti a retrocedere gran parte del salario ai propri datori di lavoro, anche loro originari del Pakistan. Spesso attraverso «money transfer», inviando denaro in patria, a favore di connazionali sconosciuti, indicati dagli stessi datori. Ma erano anche costretti a fare la spesa, per circa 150 euro al mese, in un negozio di alimentari «collegato» ai loro sfruttatori. Ed ecco che la somma che rimaneva nelle tasche dei dipendenti era dimezzata se non oltre: tra i 500 e i 700 euro appena. Di fatto quindi venivano pagati 4-5 euro all’ora, per turni spossanti, dalle 9 alle 13 ore al giorno, dall’alba alla sera, ben oltre quanto previsto dal loro contratto part-time e dal limite legale delle 48 ore settimanali (ma questo non risultava dai cedolini paga che venivano modificati ad hoc). Anche gli alloggi erano gestiti dai datori di lavoro che pretendevano fino a 200 euro per un posto letto in immobili occupati da altri dieci, quindici connazionali. Tutti obbligati ad accettare quelle condizioni di sfruttamento, quelle imposizioni anche sulla restituzione di parte degli stipendi accreditati ogni mese. Tutto per poter rimanere in Italia: per ottenere un permesso di soggiorno per motivi lavorativi e riuscire quindi a mantenere la propria famiglia in Pakistan. Almeno questo il quadro accusatorio emerso nel corso delle indagini in materia di caporalato effettuate dalla Guardia di Finanza che ha portato a galla il caso di una società di Vallagarina che opera nel settore della produzione di carta e cartone, gestita appunto da cittadini pakistani. Sette le persone che sono state iscritte sul registro degli indagati dalla Procura di Rovereto la quale ora, chiuse le indagini preliminari, ha chiesto per tutti loro il processo.
Gli imputati, le accuse
Si tratta di sei uomini, tutti cittadini pakistani, e di una donna trentina, che a quanto trapela si occupava delle buste paghe. Rispondono a vario titolo dell’ipotesi di intermediazione illecita e sfruttamento della manodopera e di violazione delle norme sull’immigrazione. Le investigazioni, passate anche attraverso attività tecniche, ad accessi e perquisizioni, hanno portato alla luce gravi irregolarità penali e giuslavoristiche relative al periodo tra il 2021 e il 2023. Contestate anche violazioni in materia di sicurezza e igiene. Proprio durante una delle perquisizioni è stato scovato un «libro mastro» e diversa documentazione extracontabile che ha consentito agli investigatori del nucleo di polizia economico-finanziaria di Trento di appurare pagamenti, incassi e restituzione dei soldi, di ricostruire quindi una serie di numerose irregolarità contestate.
I sigilli a case e soldi
Tra l’altro nei confronti dei sette imputati i finanzieri del Comando provinciale di Trento, con in mano il decreto di sequestro preventivo emesso dal gip su richiesta della Procura, hanno fatto scattare i sigilli per beni e somme per oltre mezzo milione di euro, nello specifico per più di 521mila euro. Quanto, per l’accusa, l’ammontare degli stipendi non versati ai lavoratori e l’indebito risparmio contributivo. Sequestri, questi, effettuati nei confronti dei sette ma anche della srl che svolgeva attività anche conto terzi e che contava diversi dipendenti. Ad essere «congelati» otto immobili, per lo più appartamenti, e un terreno, tutti a Rovereto, assieme a tre auto, alcune di grossa cilindrata, quote societarie e disponibilità finanziarie depositate su conti correnti della società e degli imputati. Stando alla contestazione in un solo anno avevano fatto in modo che i dipendenti inviassero in patria, attraverso money transfer, 102mila euro, e che facessero incassare al negozio «amico» 22mila buoni pasto elettronici, per un totale di 152mila euro. Insomma, venivano messi in atto una serie di stratagemmi per dedurre costi e pagare meno tasse ma anche per risultare più concorrenziali sul mercato. E capitava pure che inducessero alcuni lavoratori ad assumere come collaboratori familiari alcuni connazionali che pagavano 6mila euro.
La condanna del sindacato
A stretto giro è arrivata la condanna di Cgil, in particolare del segretario generale Andrea Grosselli e di Norma Marighetti, segretaria generale di Slc del Trentino. «Il quadro di sfruttamento emerso desta rabbia e sconcerto e ci restituisce l’immagine di un Trentino dove il caporalato è una realtà con cui fare i conti. Anche questa volta le vittime sono stati lavoratori fragili, non regolari, in condizione di bisogno che con il ricatto di un possibile permesso di soggiorno venivano sottopagati e fatti lavorare per ore e ore. Alcuni di questi lavoratori si sono rivolti anche ai nostri uffici, ma purtroppo sono poi spariti — fanno sapere — Ci siamo messi a disposizione dei lavoratori, ma non avevano possibilità di denuncia non solo per paura, ma anche perché i datori di lavoro avevano sequestrato loro anche i documenti e molte volte li hanno minacciati di ritorsione sui familiari nel loro Paese». Per il sindacato «questi fenomeni si contrastano rafforzando i controlli e con un monitoraggio continuo». Ma «bisogna agire anche sul fronte della regolarizzazione dei cittadini stranieri e delle politiche di accoglienza» ancora la Cgil del Trentino che sabato sarà con una propria delegazione alla manifestazione nazionale di Latina, contro il sistema del caporalato e dello sfruttamento.