Oriente Occidente

venerdì 8 Settembre, 2023

La resistenza di Dorothée Munyaneza: «Canto le identità cancellate»

di

La performer anglo-ruandese ieri sera in scena a Rovereto con lo spettacolo «Toi, Moi, Tituba»: una relazione inscindibile tra sopraffazione, colore della pelle e genere

La danza e la voce incarnano il legame tra le tracce dei popoli estinti e scomparsi, degli esseri umani dimenticati e cancellati dal passato coloniale e patriarcale, e un presente che non intende cedere all’oblio della storia. Nello spettacolo «Toi, Moi, Tituba», in programma questa sera al Festival Oriente Occidente alle 20.30 all’auditorium Melotti di Rovereto, la performer anglo-ruandese Dorothée Munyaneza darà corpo e voce a chi ha subito quella sopraffazione, quella negazione dell’identità, quella schiavitù e infine il silenzio, in un atto artistico quanto politico che induce a interrogarsi sulla relazione tra violenza, colore della pelle e genere.
Sola sul palcoscenico, affiancata dal musicista britannico di origine irachena Khyam Allami, Munyaneza incontra la storia di Tituba, «donna, nera e strega in un’epoca in cui non è giusto essere niente di tutto questo», in una performance che si propone come un «assolo collettivo» che intende rendere giustizia a Tituba — schiava nera coinvolta nella caccia alle streghe che nel 1692 sconvolse la comunità puritana di Salem — e a tutte le persone che sono passate inosservate, cancellate dalla storia e dagli «archivi coloniali».
Donna, nera, strega. Queste sono le parole con cui è stata definita Tituba, a cui voi date corpo e voce. Chi è stata Tituba e cosa rappresenta per lei?
«Donna, nera, strega sono parole che sono state lasciate nei verbali della stregoneria di Salem. Per me Tituba è più di queste parole. Ha vissuto e vive ancora nelle memorie di coloro che la ricordano. Molti anni fa, ho letto l’acclamato romanzo di Maryse Condé “Io, Tituba, strega nera di Salem”, al quale sono tornata mentre preparavo il mio pezzo “Toi, Moi, Tituba”. Maryse Condé nella sua narrazione romanzata fa emergere Tituba da quelle poche parole citate nei verbali della stregoneria di Salem e ci ricorda che Tituba è esistita. Maryse Condé ci apre alla vita di Tituba, piena di violenza, schiavitù, dolore, erbe medicinali, desiderio e amore e, così facendo, la ricordiamo. Poi sono arrivata a dialogare con Tituba attraverso il saggio della filosofa Elsa Dorlin intitolato “Io, Tu, Noi: Io, Tituba e l’ontologia della traccia”. Un testo filosofico che mi ha accompagnata durante tutto il processo di creazione e mi accompagna ancora oggi. Con il saggio di Elsa Dorlin, ho conosciuto Tituba e ho cercato di seguire la sua sopravvivenza al di là dei freddi archivi storici ufficiali in cui la prospettiva delle donne schiavizzate è assente, ho sentito l’eco di Tituba attraverso l’oblio, attraverso l’estrema violenza infinita della schiavitù, dello stupro, della cancellazione attraverso la sua sopravvivenza. L’ho sentita presente anche oltre la morte. Tituba per me è una donna medicina, una sopravvissuta, una guaritrice, un’amante. Tituba mi collega a coloro le cui tracce non sono visibili, agli invisibili, agli assenti, ai guaritori».
Nello spettacolo, che descrive come un «assolo collettivo», incarna questo coro di istanze. Sul suo corpo e attraverso il suono della sua voce scorrono il sangue e l’oblio di chi è stato cancellato, di coloro la cui identità è stata azzerata. Che cosa significa per lei assumere tutte queste istanze e trasformarle in arte?
«Quando scrissi “Toi, Moi, Tituba” e lo descrissi come un “assolo collettivo” è perché vengo accompagnata da coloro che sono con me da quando sono nata, vengo accompagnata dalle voci e dalle esperienze della mia gente e delle persone di cui voglio incarnare le storie. Vengo accompagnata da coloro con le cui frequenze entro in contatto. Sono una moltitudine di esseri. C’è una versione di “Toi, Moi, Tituba”, in cui sono completamente sola in scena e un’altra in cui sono con il mio collaboratore, il compositore e musicista Khyam Allami. La presenza di Khyam Allami è necessaria per articolare questo “assolo collettivo”, poiché egli stesso abita lo spazio con me e viene abitato dai suoi archivi intimi e storici e da Tituba. Siamo una moltitudine».
Può dirci qualcosa di più sull’idea di «assolo collettivo»?
«È il modo in cui mi impegno nel lavoro che faccio. È una forma di creazione e di vita. Un modo di riconoscere che non siamo esseri singoli e distaccati, ma che c’è un’interconnessione, un modo di andare oltre i confini, di forgiare la memoria, di essere ricordati e ricordanti».
Quale eredità e quale messaggio è importante trasmettere?
«Con “Toi, Moi, Tituba” non si tratta di trasmettere un messaggio o un’eredità. Si tratta di rendere omaggio a coloro la cui esistenza è stata negata, di nominarli, di testimoniare la loro esistenza, di ricordarli e vendicarli dall’oblio e dal silenzio. Con “Toi, Moi, Tituba”, torno a un nome, dietro il quale esistono altri nomi, torno a quelle donne schiavizzate, a quelle streghe, a quelle guaritrici, a quelle nonne il cui sapere e le cui azioni portano me, voi, noi, la cui esistenza, le cui storie, le cui voci, i cui canti ondeggiano ancora sulla punta delle eliconie. Attraverso Tituba, canto e danzo i loro nomi. Li celebro. Concludo con le parole di Elsa Dorlin tratte dal suo saggio “Io, Tu, Noi: Io, Tituba e l’ontologia della traccia”: “Diventare Tituba, prendersi cura delle vite che giacciono negli archivi, ‘comunicare con l’invisibile’, ascoltare i fantasmi, trovare lì qualcosa di proprio, qualcosa di familiare e di comune, una cornice in cui collocarsi e ricentrarsi tra le risme e le pieghe della storia. Tituba mi ha permesso di dare un nome ai miei morti, di ristabilire le connessioni, anche se lo schema resta da capire. Raccontare così questa storia che è diventata visibile, intelligibile e parlabile grazie a Tituba, a Maryse Condé e alla letteratura guyanese-occidentale-indiana, non è una ricerca dell’origine, ma piuttosto una ricerca del mondo, della realtà. È anche una forma di vendetta epistemica, una vendetta contro la pagina bianca e la parola silenziata e spenta, contro il non-senso e la derealizzazione. Infine, è un omaggio alla memoria di Isabelle (la nonna guianese di Dorlin, ndr): è lei che ho voluto far rivivere qui, è lei che ho voluto ascoltare, è a lei che ho voluto dare ascolto, a lei che ho voluto parlare e collegarmi: Io, tu, noi, Isabelle…”».