L'editoriale
martedì 13 Giugno, 2023
di Marika Damaggio
Ci sono fatti di cronaca che sconvolgono l’opinione pubblica. Fatti che scardinano ciò che è socialmente accettato. Fatti che si rivelano occasione per affrontare fenomeni generali, come la violenza di genere che è piaga che non conosce età e censo. Fatti, ancora, talmente clamorosi che la stampa e le emittenti televisive raccontano al millimetro, spesso dando spazio ad analisi superficiali più simili all’incontinenza che all’occasione, seria, di riflessione.
È il caso del femminicidio di Senago: Giulia Tramontano, 29 anni e incinta di sette mesi, è stata ammazzata a coltellate sabato 27 maggio. A ucciderla il compagno fedifrago Alessandro Impagnatiello, barista di trent’anni col vizio delle relazioni parallele. Al di là della cronaca di per sé aberrante, a peggiorare un quadro già manifestamente problematico circa la profondità della violenza contro le donne, a distanza di giorni va menzionata l’inadeguatezza delle parole utilizzate per commentare ciò che è accaduto. A quanto pare la tendenza a colpevolizzare la vittima, e le donne vittime di violenza tout court, è sottile e ampiamente diffusa.
Lo dimostrano le dichiarazioni della Pm titolare del fascicolo, Letizia Mannella: «La vicenda – ha detto nel corso della conferenza stampa all’indomani della confessione di Impagnatiello – deve insegnare a noi donne che non bisogna mai andare all’incontro di spiegazione. È un momento da non vivere mai perché estremamente pericoloso». Pur comprendendo la buona fede delle intenzioni, il messaggio è pericoloso. Verrebbe infatti da chiedere alla magistrata: e per quale ragione spetterebbe alla vittima cercare di non essere vittima? Non sarebbe forse più igienico eradicare i comportamenti violenti anziché pensare che la prevenzione sia solo faccenda delle donne abusate, ammazzate e menate? Tra l’altro: Impagnatiello non aveva precedenti di violenza, secondo quanto riferiscono gli inquirenti. Aveva piuttosto un concetto personalissimo della monogamia, ma questo è un altro discorso e attiene più alla morale individuale che alla legge.
La violenza, così erroneamente rappresentata, appare come un fatto biologico, proprio dell’uomo. Una generalizzazione sbagliata sia per gli uomini – che non sono violenti, semmai agiscono violenza – sia per le donne che sono sempre e comunque responsabili in qualche modo degli abusi subiti (un paradosso odioso). La violenza è un fatto sociale e culturale. Agire violenza è una scelta, non è una malattia. E come tale una scelta può essere corretta, cambiata, evitata.
Altrettanto pericolose sono le richieste di scuse – arrivate pericolosamente in diretta tv – attese dalla madre dell’assassino. «Mio figlio è un mostro, lo so. Io le chiedo perdono». Così ha detto fra le lacrime Sabrina Paulis, la mamma dell’uomo che ha confessato l’omicidio della compagna Giulia Tramontano. «Chiedo perdono, da madre, a tutta la famiglia per aver fatto un figlio così. Ale non era così», ha detto ancora la donna a La Vita In Diretta, il programma di Rai 1 condotto da Alberto Matano. «Come fai a perdonare? Alessandro pagherà, quello sì, ma è imperdonabile», ha aggiunto. Ancora una volta a disturbare è sia la retorica del mostro (no, non esistono mostri ma scelte violente consapevoli e legate a una cultura patriarcale tristemente consolidata) sia la convinzione che una madre, plasticamente considerata unica responsabile dell’educazione dei figli, debba avere una responsabilità precisa sull’esistenza di un uomo adulto. Che, s’immagina, avrà pure un padre. Ma a lui la morale collettiva non chiede l’umiliazione pubblica delle scuse. Una umiliazione, tra l’altro, acuita dalle parole – sempre in diretta tv – di Mara Venier che a Sabrina Paulis s’è rivolta dicendo: «Sì, signora, suo figlio è un mostro». L’indignazione successiva ha portato a delle scuse della conduttrice-pop, ma ormai il limite è stato superato e dimostra l’inadeguatezza non solo dei professionisti dell’informazione – che sono spesso specchio del tempo che abitano – ma di una intera società che ancora non ammette l’esistenza di un problema serio.
Anziché educare le bambine prima e le ragazze poi a evitare in futuro compagni violenti, lasciandoli anzitempo (che poi: e se fosse il penultimo incontro quello fatale?) sarebbe davvero opportuno affrontare concretamente l’urgenza di percorsi educativi. Lasciando da parte sciocchezze ideologiche che smorzano intenzioni serie. L’educazione al genere è una forma di prevenzione della violenza di genere nella misura in cui il suo principale obiettivo è quello di interrogare il rapporto tra identità/differenze/relazioni di genere e stereotipi culturali e di favorire l’assunzione di modelli antiviolenti di identificazione e di relazione. Continuare a dribblare il nocciolo del problema non farà altro che conservare sotto al tappeto un problema sociale e culturale ormai ineludibile.
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