L'intervista
domenica 17 Marzo, 2024
di Lorenzo Fabiano
«L’uomo che visse due volte», come il titolo di un vecchio film. Il malore a Cortina, dove si era recato per presentare il suo ultimo libro «Madre Patria» (Bompiani), l’intervento chirurgico d’urgenza all’aorta all’ospedale di Treviso il 28 dicembre, il buio e la luce al risveglio; a 62 anni è nato una seconda volta Vittorio Emanuele Parsi, professore ordinario di Relazioni Internazionali e Studi Strategici all’Università Cattolica di Milano, nonché uno dei maggiori esperti in Italia di Geopolitica, noto al grande pubblico per le sue partecipazioni ai dibattiti televisivi.
Professore, innanzitutto come sta?
«Meglio, grazie. È come se fossi precipitato in un crepaccio e poi risalito. Nel coma non si ha la percezione del mondo esterno né del dolore, ma la percezione di sé e della fatica a riemergere sì».
All’ospedale di Treviso le hanno salvato la vita; la sanità pubblica era un fiore all’occhiello dell’Italia, ma oggi in talune regioni ci vogliono due anni per una mammografia: stando al titolo del suo libro, può essere «Madre Patria» un Paese che non investe più nelle cure dei suoi figli?
«Nella mia esperienza personale ho potuto sperimentare l’eccellenza della sanità veneta, che è in gran parte pubblica ed è un modello sanitario efficace; il Veneto ha lo stesso colore politico della mia regione, la Lombardia, dove invece la sanità è in gran parte privata: questo spiega perché in Veneto la pandemia non abbia prodotto disastri come in Lombardia».
Cosa intende per «Madre Patria»?
«Una comunità di cittadini con le loro istituzioni. C’è una tendenza tutta italica di distinguere la società dalle istituzioni: non è così. Senza un’istituzione politica, una comunità non esprime una patria. Dovremmo anche chiederci quanto meglio starebbe l’Italia se ognuno di noi facesse il proprio dovere nei confronti della comunità».
2024 anno cruciale. Cominciamo dalle elezioni americane: come sostiene Biden, vede anche lei nel ritorno di Trump un rischio per la democrazia?
«È preoccupante. E sarebbe un Trump ancora più estremista e radicale, nonostante le inchieste a cui è sottoposto, compresa quella di aver fomentato una cosa inaudita come l’assalto a Capitol Hill. Ha detto che Hitler “ha fatto anche cose buone” e a Mar-a-Lago ha appena invitato Orbàn, uno che è vicino a Putin e rappresenta una minaccia alla coesione europea. Con Trump l’Europa non sarebbe più un interlocutore, ma un avversario da mettere in difficoltà».
Già, l’Europa. Si vota a giugno e anche qui soffiano venti nazionalisti e populisti. A cosa andiamo incontro, professore?
«Ci attendono tre grandi sfide: investire in sanità, istruzione, e difesa per mettere in sicurezza la nostra libertà. Per come la vedo io, è importante votare chi nei confronti dell’Europa ha un atteggiamento costruttivo. Se in Europa abbiamo un lusso come il pluralismo, lo dobbiamo all’Unione Europea che lo garantisce. Sono concetti semplici, ma siccome viviamo nell’epoca della post-verità, o della bufala, diventa tutto complicato e vediamo in continuazione gente andare in tv a dire un mucchio di scemenze. Il problema non è chi parla a vanvera, ma chi gli dà retta»
Come spiega questo sentimento strisciante di insofferenza verso la democrazia, giudicata come qualcosa di vecchio e inefficace?
«Scorre un fiume carsico di insofferenza verso competenza e conoscenza, con l’idea che tanto sono tutti uguali e dietro c’è sempre qualcosa che non ci dicono. Questo ha facilitato l’ascesa del fascismo e dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini nel dopoguerra. Oggi è un fenomeno legato al fallimento dell’istruzione ma lo si vede anche in genitori che per proteggere i figli vanno contro gli insegnanti. Ciò detto, la democrazia richiede partecipazione, che non significa solo andare a votare ma anche attivare le nostre conoscenze. Richiede anche assunzione di responsabilità; se prometti una cosa e poi non la fai, te ne devi assumere la responsabilità. Per questo va fatto un patto prepolitico di onestà tra il dire e il fare, altrimenti senza argini il dibattito esonda e travolge tutto».
Conflitto israelopalestinese: la soluzione «due popoli due Stati» è praticabile?
«Tifare per una fazione o per l’altra non serve a nulla. Dagli accordi di Oslo del 1993, chi alle spalle aveva uno Stato ha fatto scelte che hanno reso le cose ancora più difficili. Questo va detto. La situazione è complicata e se dal 1948 siamo arrivati a questo, lo si deve agli uni e agli altri a fasi alterne. Il Pogrom del 7 ottobre 2023 è stato di una violenza inumana; la reazione di Israele ha però travalicato il limite della misura e non porta ad alcuna soluzione. La speranza è che Europa e Stati Uniti facciano pressioni, ma finché ci sarà Netanyahu la situazione continuerà ad essere complicata».
In Ucraina il Papa invoca la bandiera bianca; gli ucraini gli hanno risposto che la loro bandiera è gialla e blu.
«Si potrebbe anche dire che se i cristiani avessero alzato bandiera bianca, al posto di San Pietro ci sarebbe il Tempio di Venere. Il cardinale Parolin ha poi precisato che per primi devono essere gli aggressori, e non gli aggrediti, a deporre le armi e aprire il negoziato; trovo però singolare che ogni volta che sull’Ucraina interviene il Papa, pur riconosciuto come un grande comunicatore, c’è sempre bisogno di qualche rettifica. I russi applaudono mentre gli ucraini e i Paesi Occidentali devono mettere dei distinguo. Innanzitutto, non si può pensare che il mondo si regga su una violazione del diritto internazionale; quella non è pace, ma barbarie. Qualsiasi soluzione, anche la presa d’atto che l’Ucraina è stata amputata nel 2014 e nel 2022, deve prevedere che il Paese sia messo sotto la protezione della Ue e della Nato».
In Italia i toni della politica sono sempre piuttosto alti: lo scontro è frontale.
«Ciò che mi preoccupa in Italia è il rischio di radicalizzazione degli schieramenti, e confido quindi in un rafforzamento dell’area moderata nel centrodestra e di quella riformista nel centrosinistra. L’unica cosa logica da fare è la riforma elettorale con un sistema a doppio turno come in Francia dove, nonostante la presenza di forze radicali, il quadro è stabile. Al primo turno soppesi i rapporti di forza, al secondo fai le alleanze. Non metti insieme le mele e le pere, ma costringi i partiti a presentarsi agli elettori alla luce del sole».
Lei è riservista della Marina militare con il grado di Capitano di Fregata, decorato con tanto di «UN Peacekeeping Medal»; ha letto o visto al cinema «Comandante»? Cosa rimane in questo Paese dell’humana pietas di Salvatore Todaro?
«Di humana pietas ne vedo poca in giro. Ho letto il libro e di Salvatore Todaro mi ha colpito la capacità di assumersi la responsabilità delle persone. Non è solo un libro sull’umanità da mostrare in guerra, ma anche sulla responsabilità quale premessa per realizzare qualsiasi impresa».
Da ex giocatore ed appassionato di rugby, è contento che abbiamo ritrovato una Nazionale?
«Vedo una Nazionale con una sua identità e la capacità di essere squadra. Anche il rugby insegna qualcosa: ero allo stadio Olimpico a vedere la partita con la Scozia, a Roma non vincevamo da undici anni ma evidentemente non son stati undici anni buttati via. Nessuno può pensare di riuscire a fare tutto subito, ci vuole tempo e le cose vanno costruite con metodo e rigore. Una lezione per tutti noi. Un libro mica lo scrivi in cinque minuti; se sei veloce di penna, è perché prima hai riflettuto a lungo».
Professore, con quello che ha passato è come se fosse nato una seconda volta; cosa vuol fare da grande?
«Continuare a fare il mestiere di professore e mettere a disposizione dei miei concittadini e delle mie concittadine quel poco o tanto che so. Vorrei però rallentare, gustarmi di più le cose e starci dentro. Ho vissuto gli ultimi tre anni come una pallina da flipper; non ho più vent’anni e nemmeno cinquanta, mi è stata ridata la vita e non la voglio buttare via».