Medicina
mercoledì 7 Dicembre, 2022
di Simone Casciano
La carta d’identità di Silvio Garattini alla voce data di nascita recita 1928. Ma l’oncologo e presidente dell’istituto di ricerca farmacologica «Mario Negri», a dispetto dei suoi 94 anni, è ancora perfettamente calato nel presente e proiettato nel futuro. E lo è anche il suo ultimo libro «Brevettare la salute?» in cui affronta il tema dei brevetti in campo farmaceutico. Arrivato a Trento su invito della facoltà di Giursprudenza, per una lectio che muove i suoi passi proprio dal suo ultimo lavoro, il professore ancora si scalda pensando a come, durante la pandemia, l’industria farmaceutica abbia mostrato il suo lato peggiore
«Il Covid ha esposto in maniera forte questo tema. Già a dicembre del 2020 avevamo dei vaccini efficaci che però non abbiamo avuto a disposizione perché protetti dai brevetti. Questo non è stato un problema solo per i paesi in via di sviluppo, ma anche per l’Europa e l’Italia dove le dosi sono arrivate in numeri importanti solo a partire da marzo con quattro mesi di ritardo. Sento che abbiamo sulla coscienza tutte le morti di quei 120 giorni che si potevano prevenire. Dobbiamo evitare che questo si ripeta».
Tra l’altro quei vaccini furono realizzati grazie anche a un importante investimento pubblico?
«Esatto, e così il pubblico si è trovato a pagare due volte mentre il privato registrava profitti record. Senza contare che le industrie hanno anche beneficiato, gratuitamente, della ricerca che era stata fatta sull’RNA messaggero»
Quindi dobbiamo togliere i brevetti?
«Partiamo da un presupposto: in Italia il brevetto in campo farmaceutico fu introdotto dalla Corte costituzionale nel 1978 per favorire la ricerca e quindi il miglioramento della salute pubblica in accordo con l’articolo 32 della Costituzione. Nel momento in cui, come avvenuto durante la pandemia, esso diventa un ostacolo al benessere generale perde la sua giustificazione giuridica».
C’è chi dice che senza brevetti non c’è stimolo alla ricerca
«Personalmente non ci credo. Va detto che già oggi l’industria farmaceutica non fa più il lavoro di una volta. Io sono abbastanza vecchio da ricordarmeli i centri di ricerca privata di tanti anni fa. Ora non è più così. Il lavoro principale delle aziende adesso è quello di andare a caccia di start-up in tutto il mondo. Molti dei più importanti farmaci sviluppati negli ultimi anni sono nati così. Acquistando il frutto del lavoro di piccoli gruppi di ricerca. Il costo di queste aste viene poi riversato anche sulla sanità pubblica».
Quindi andrebbe abolito?
«Diciamo che andrebbe quantomeno modificato il concetto di brevetto. Già ora dovrebbe premiare la vera innovazione. Eppure, in campo farmaceutico, ci troviamo con tantissimi farmaci simili coperti da esso. Quello che vogliamo è che la ricerca rimetta al centro dell’attenzione il malato e i suoi bisogni, non quelli dell’industria sanitaria. Adesso purtroppo non è così».
Cosa intende?
«Faccio un esempio: al mondo ci sono 7mila malattie rare per cui non c’è ricerca nell’industria farmacologica. Perché le aziende puntano a massimizzare i profitti e non è proficuo sviluppare un farmaco che serve a pochi malati. Cosa ne è quindi del diritto alla salute di queste persone?».
Ci vorrebbe più ricerca pubblica?
«Si assolutamente, in Italia purtroppo è ancora una cenerentola. Viene considerata una spesa e non un investimento. Ma senza ricerca non c’è sviluppo. Purtroppo, i dati non sono buoni. Il rapporto di ricercatori ogni milione di abitanti in Italia è la metà rispetto agli altri paesi europei. Investiamo l’1,3% del Pil quando gli altri sono oltre il 2,5%. Per arrivare ai livelli della Francia dovremmo spendere 22 miliardi di Euro in più all’anno, ma i problemi non sono solo i finanziamenti».
Cosa intende?
«La ricerca deve essere davvero libera. Adesso non è così. I brevetti sono uno dei benchmark con i quali si valuta la qualità degli istituti di ricerca universitari e pubblici. Questa è una contraddizione in termini. Se si lavora per un brevetto si è già proiettati verso l’industria e non verso la conoscenza. Se la ricerca non è libera, finirà per diminuire costantemente e sarà impossibile trovare nuovi elementi. Senza considerare la stortura dello stato che finanzia una ricerca, che viene poi coperta da brevetto e che poi il pubblico è costretto a pagare una seconda volta per il sistema sanitario nazionale».
Ma si può fare ricerca pubblica senza puntare sui brevetti?
«Certo, noi all’istituto “Mario Negri” non abbiamo mai brevettato nessuna delle nostre scoperte; eppure, da anni, siamo un punto di riferimento per la ricerca».
È preoccupato per la situazione del sistema sanitario nazionale?
«Mi sembra che stiamo andando verso un sistema privato. Le caratteristiche del SSN sono universalità, equità e gratuità. Questo ora non è garantito perché spesso il cittadino si trova di fronte a liste d’attesa infinite. A quelle stesse persone poi, sottovoce, viene detto che pagando l’intervento si può fare subito. Dobbiamo abolire l’intramoenia e aumentare gli stipendi di medici e infermieri per evitare la fuga dei cervelli».
Con il PNRR sono arrivati molti fondi
«Si ma sono risorse destinate prevalentemente alle infrastrutture. Ospedali e case della salute. Perfetto, ma poi come le attiviamo se non abbiamo i professionisti? La prima cosa da fare sarebbe riorganizzare in maniera migliore il lavoro».
In che modo lo facciamo?
«Bisognerebbe lavorare su tre livelli. Quello base sono le case della salute, dove riunire medici di base, infermieri e anche psicologi. Strutture dove ricevere visite quotidiane e supporto costante. Questo costituirebbe un vero e proprio filtro verso gli ospedali che così diventerebbero dei centri specializzati dove effettuare solo analisi specifiche e interventi chirurgici. Il terzo pilastro sarebbe poi una vera assistenza domiciliare».
C’è anche un problema di differenza nella qualità delle cure tra regioni
«Purtroppo sì. Dovremmo riformare il sistema non più su base regionale ma individuando 12 macroaree di 5 milioni di abitanti ciascuna. In questo modo avremmo livelli di assistenza simili. C’è poi una parola fondamentale che ci siamo dimenticati».
Sarebbe?
«Prevenzione. Ce lo dimentichiamo, ma i dati ci dicono che il 50% delle malattie croniche è evitabile. Il 70% dei tumori, di cui muoiono 180mila persone ogni anno in Italia, sono prevenibili. Ma questo problema non viene esplorato perché la prevenzione è in conflitto con gli interessi del mercato».
Professore le sue idee sono ambiziose, ce la faremo?
«Secondo me sì, quando si vuole le cose si ottengono, anche velocemente. Io mi ricordo ancora quando mio padre dovette prendere un secondo lavoro, la notte, per pagare le cure di mio fratello. A quei tempi un sistema sanitario universale e gratuito non sembrava nemmeno pensabile eppure, grazie alla volontà comune, lo abbiamo reso possibile».
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