L'editoriale
martedì 31 Gennaio, 2023
di Simone Casalini
La transizione del Partito democratico da crisalide a farfalla non si è mai compiuta. La principale causa è stata ravvisata nel processo chimico-costitutivo, ossia la fusione a freddo tra i due partiti che ne sono stati gli ispiratori, Democratici di sinistra e Margherita. A distanza di anni le due culture avrebbero continuato a generare autonome classi dirigenti che avrebbero a loro volta e in modo sistematico balcanizzato il Pd. Che il correntismo senza finalità ideali e di pensiero sia una patologia in grado di erodere la vitalità dei movimenti politici è indubbio, che questa sia la ragione del mancato decollo di quello concepito per essere il partito del riformismo in Italia appare poco credibile e comunque non esaustiva.
Se il Pd è in una fase di eterna transizione non è solo per il sistema di caste interne, ma perché non è riuscito a trovare un’identità politica plausibile che gli permettesse di costruire una rappresentanza sociale fortemente fidelizzata e trasversale. E forse anche per un misunderstanding di fondo che riguarda il concetto stesso di riformismo (rivoluzionari o riformisti è un’antica questione della sinistra europea e un’eredità del marxismo) e la sua declinazione. Il riformismo può indicare una radicale revisione delle strutture e delle politiche o un graduale adeguamento. Può avere come urgenza politica il tema dell’uguaglianza oppure tollerare una percentuale di disuguaglianza. Può pensare alla sostenibilità come ad un principio guida oppure barattarla a seconda delle necessità e degli eventi. Può rifiutare il privilegio o accettarlo in dosi da stabilire.
Il Pd ha indossato tante maschere, cambiato posizioni e strategie, leader e icone, senza riuscire forse a far emergere un tratto essenziale della propria fisiognomia. E nonostante questo, nonostante un radicamento consistente nelle zone bene delle città – come nemesi di una sinistra e un antico concetto operaio dissolto dalla fine delle ideologie e delle fabbriche fordiste – i democratici continuano a conservare un consenso non residuale (19% alle ultime Politiche). Certo, se si sommano i voti l’emorragia è evidente: alle elezioni provinciali del 2003 – nel culmine della parabola di Lorenzo Dellai – Margherita e Ds arrivarono insieme a 106.635 preferenze (quasi il 40%); nel 2013 (con la vittoria di Ugo Rossi) la somma di Pd e Unione per il Trentino offriva 84.065 voti (35,4%); nel 2018 la stessa congiunzione era scesa a 45.665 (quasi 18%), 72mila preferenze se si vogliono sommare anche i voti di Futura.
Il Pd è in una posizione che, a seconda delle stagioni e delle leadership, può consentirgli di prendere voti a sinistra e al centro, o di perderne – come in tempi recenti – a vantaggio di altri soggetti politici che si muovono in aree contigue (Calenda e il Movimento 5 stelle). E in fondo ne misurano il livello di senso e le posizioni nel trascorrere delle stagioni politiche.
Il Pd del Trentino, che a volta trasforma la sua dizione territoriale in un suffisso, ha un problema aggiuntivo. Interpretare un territorio speciale che richiede un surplus di pensiero e di rappresentanza. In tempi recenti, a livello di alleanze, lo ha fatto promuovendo il pallino di Enrico Letta (il campo largo) senza i pentastellati ma con calendiani, civici e altre esperienze locali. Spesso lasciando nel cassetto le proprie candidature per riflettere su figure di mediazione (Ianeselli a Trento e Valduga a Rovereto, per esempio). Qui le primarie hanno interrotto il processo di selezione della o del candidata/o per la Provincia, ristornando l’attenzione sulle dinamiche nazionali (di poco interesse) e sui rapporti di forza interni tra orgoglio di bandiera, antiche e nuove rivalità, quarti mandati (in Consiglio). La sfida tra Alessandro Dal Ri e Alessandro Betta è tra posizioni conciliabili nel quadro dell’ultima frattura della classe dirigente.
È evidente che il gradimento del partito su Francesco Valduga dipenderà molto dall’esito del processo elettorale interno al Pd, e questo al di là delle dichiarazioni ufficiali che tendono a sovrapporsi. Perché la posizione di Dal Ri e dei suoi sostenitori (dall’ex segretaria Maestri a Tonini) inclina verso il sindaco di Rovereto, quella di Betta potrebbe privilegiare le primarie o una candidatura identitaria.
L’unica verità è che il dissidio plateale nato nel centrodestra – sempre in attesa di ricomposizione – ha offerto una ragione in più per chiudere rapidamente il cerchio della leadership. Darebbe all’Alleanza democratica per l’Autonomia il vantaggio del tempo, lasciando la pressione nel campo avversario e pur partendo da anni di opposizione non proprio memorabile.
Tutto il dibattito intorno al senso esistenziale del Pd – mi si vede di più se proseguo o se muoio volontariamente per far nascere un’altra sinistra e un altro centro? – può trovare una risposta empirica nella vita quotidiana, nelle linee di pensiero, nell’autoreferenzialità da evitare, nell’uguaglianza da perseguire, in una nuova esegesi sociale da comporre. Sapendo che i partiti non sono più lo spazio in cui si costituisce il “politico”, ma solo uno dei tanti luoghi di passaggio. E che, proprio per tale ragione, accanto alla (residua) militanza un partito oggi deve incrociare le istanze di un mondo frantumato che chiede, però spesso di esserci. Che chiede di trovare porte aperte.
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