la storia
sabato 24 Dicembre, 2022
di Simone Casciano
Le persone cominciano ad arrivare alle 20. La prima cosa che fanno, dopo essersi tolte le scarpe, è dirigersi nella sala comune dove ad aspettarli ci sono capienti thermos di the caldo. Dopo aver passato tutta la giornata per le strade di Trento ce n’è bisogno. Ma non hanno altra scelta. I 24 ospiti delle ex Bellesini, la struttura aperta a tempo di record lo scorso 14 dicembre, sono grati dell’ospitalità che li ha salvati dal gelo, dopo mesi passati a dormire sotto i ponti e negli anfratti della città. Molti di loro vengono dal Pakistan, alcuni dal Bangladesh e c’è anche un ragazzo Curdo di Turchia.
Ad accoglierli qui trovano Ibrar e Singh due operatori del Centro Astalli che si prende cura della struttura. Il primo è pakistano, il secondo è indiano, ma a differenza dei loro stati, i due sono grandi amici. Sono loro ad aiutarci a parlare con alcuni degli ospiti della struttura. A farsi avanti è Ibrar Ahmed. Viene dal Pakistan e ha 28 anni. Ha lasciato il suo paese quando ne aveva appena 20. «Non avevo nemmeno la barba quando sono partito, ora mi sento già vecchio – dice ridendo. Sono dovuto partire perché mio padre è molto malato. Le cure costano, io già lavoravo in Pakistan ma non era abbastanza. Sono il fratello maggiore, era compito mio prendermi cura di mio padre, e delle mie sorelle e fratelli più piccoli». Per questo è partito. Ha passato 8 anni in Grecia, un periodo difficile di cui ha poca voglia di parlare. Poi l’arrivo a Trento 3 mesi fa. «È stato difficile, ho dormito sotto i ponti, nei vicoli. Quando ha cominciato a piovere e nevicare ho avuto paura, pensavo di non farcela». Per fortuna poi la Provincia ha deciso di aprire nuovi posti nei dormitori e il comune di Trento a tempi record ha attrezzato i 24 posti alle ex Bellesini. Ora Ibrar e gli altri ospiti hanno un luogo dove dormire. Quelle che una volta erano classi sono diventate delle camerate. 6 in tutto con 8 letti ciascuna. Non troppo strette, ma nemmeno private. «Ci sarebbe più posto qui – ci dice uno degli operatori –. Se decidono di aumentarli per noi non c’è problema, anzi meglio. Sappiamo che c’è ancora gente per strada e dobbiamo aiutarli». Ahmed mentre ci racconta la sua storia ha il tono sollevato di chi sa di essere appena uscito da una situazione difficile. «Quando sono arrivato, sono andato a fare i documenti, ma da allora ancora aspetto risposta alla domanda di asilo». In questo la sua storia è simile a quella di tutti gli altri ospiti che hanno passato mesi per le strade di Trento, incastrati in un meccanismo di rimpalli burocratici degni di un romanzo di Kafka. Si va allo sportello, da lì si passa al Cinformi dove si prende appuntamento in questura. Lì si presenta la richiesta di asilo vera e propria, viene fatta la foto e si ottiene la ricevuta della domanda. Da questo momento inizia l’attesa. Lunga, senza risposte e intanto senza avere un posto dove dormire. Si comincia quindi a chiedere novità, ma spesso la risposta è quella di andare a chiedere a un ufficio differente. L’apertura dei dormitori ha salvato le persone dal freddo e da questa crudele attesa.
«Adesso qui la notte stiamo bene, il problema è che durante il giorno dobbiamo uscire – ci racconta Ahmed –. Io però sono malato e fuori fa freddo non so come fare». Il Punto d’Incontro e la mensa dei Cappuccini sono diventati dei luoghi preziosi dove trovare un pasto e un po’ di caldo, ma la giornata è lunga. Servirebbe forse un posto dove restare al caldo. L’altro problema è che tutti e 24 gli ospiti delle ex Bellesini non hanno la residenza in Trentino, quindi avrebbero diritto a soli 30 giorni di ospitalità nei dormitori. «Ho paura che ci mandino via da qui – racconta Ahmed –. Qui stiamo bene, se abbiamo un posto dove dormire siamo più tranquilli, le cose vanno meglio. Senza un tetto sopra la testa diventa tutto più difficile». Questa poi è l’emergenza, ma queste persone sono tutti richiedenti asilo. C’è chi ha dovuto lasciare il proprio paese perché perseguitato, chi per aiutare la propria famiglia, come Ahmed, e chi ancora a causa di disastri ambientali. Quello di cui hanno bisogno è un percorso di accoglienza. «Ci serve progetto? quando facciamo progetto?» ci chiede Ibrar Ahmed. Alcuni suoi amici sono entrati alla residenza Fersina. Ha sentito che lì possono restare in struttura anche durante il giorno e, soprattutto, che hanno iniziato i corsi di italiano. «Voglio imparare la lingua anche io, mi serve – ci dice. Ho scelto di venire in Italia perché mi avevano detto che qui le persone ti aiutano ed è vero l’ho visto. Però adesso ho bisogno di un progetto, dei documenti. Voglio lavorare, ma come faccio senza?».
Nonostante le difficoltà e la situazione di emergenza Ibrar Ahmed non si scoraggia e ha ancora la forza di sognare. «Voglio fare l’autista. In Pakistan avevo la patente e ho guidato di tutto. Camion, minivan, furgoni. Portavo anche i bambini a scuola e gli studenti all’università». Ci sembra davvero molto sicuro delle sue capacità e glielo diciamo, ci guarda sorridendo prima di ricominciare a parlare: «Hai mai visto le strade del Pakistan? Un fiume di macchine che si getta in tutte le direzioni, se hai imparato a guidare lì puoi guidare ovunque. Sono sicuro di potercela fare, ho solo bisogno dei documenti e di una possibilità. Non sbaglierò, perché non lo faccio solo per me, ma per tutta la mia famiglia. Per mio padre malato e per i miei fratelli e le mie sorelle più piccole».