L'analisi

mercoledì 23 Ottobre, 2024

La storica de Simone: «Per comprendere il presente dobbiamo capire i crimini del colonialismo. Anche quello italiano»

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Oggi a Sociologia il film «Il leone del deserto» vietato a Trento nel 1987. La storica: «In Italia una narrazione auto-assolutoria»

Dopo oltre 40 anni dalla sua uscita, Università di Trento assieme all’associazione un «Ponte Per» proietta per la prima volta «Il leone del deserto» (1981, regia di Mustafa Akkad, con Anthony Quinn, Irene Papas e Oliver Reed, 173’, v.o. sub ita) per ricordare le responsabilità del colonialismo italiano in Libia.
Il film sarà proiettato oggi alle 17 in Aula Kessler, nel palazzo di Sociologia, con l’introduzione di Sara de Simone, ricercatrice in Storia e Istituzioni dell’Africa al Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento, a cui abbiamo chiesto di fare luce su un periodo storico che soffre di ambiguità e rimozione collettiva.
Professoressa De Simone, il tema della storia coloniale italiana è velato da una coltre di silenzio. Perché?
«Penso che ci siano almeno due ragioni. In primo luogo, nell’immaginario collettivo, il colonialismo italiano viene associato al ventennio fascista: una volta caduto Mussolini, anche l’esperienza coloniale italiana è giunta bruscamente al termine senza necessità di negoziare una via d’uscita dalle colonie, come è invece accaduto per le altre potenze coloniali. L’esperienza coloniale italiana è dunque diventata una sorta di parentesi con cui non abbiamo mai dovuto veramente fare i conti. La seconda ragione ha invece a che fare con l’idea che l’esperienza coloniale italiana sia stata una versione più blanda, meno predatoria e più costruttiva, degli altri colonialismi europei, perché gli italiani, in fondo, sono “brava gente”. Si tratta, in entrambi i casi, di clamorose mistificazioni: le avventure coloniali italiane sono cominciate ben prima di Mussolini, con i governi di sinistra di Depretis e Crispi; e le efferatezze che hanno caratterizzato l’espansione coloniale italiana – inclusi i campi di concentramento, l’utilizzo di armi non convenzionali, tutta la produzione pseudoscientifica sull’inferiorità delle popolazioni africane – non sono state affatto da meno rispetto a quelle compiute da altri in altre regioni del continente».
Il film che proietterete oggi non è mai stato proiettato nelle sale italiane. Può spiegarci le ragioni politiche di queste scelte?
«Si tratta di un film diretto dal regista siriano Mustafa Akkad, una produzione libico-statunitense parzialmente finanziata da Mu’ammar Gheddafi, che racconta le gesta del condottiero libico Omar Mukhtar che per anni ha guidato la resistenza contro l’espansione coloniale italiana in Libia. Il film è uscito nel 1981, ma già l’anno dopo il governo Andreotti ne bandì la proiezione in quanto considerata lesiva dell’onore dell’esercito italiano. Proprio a Trento, nel 1987 la Digos ne vietò la proiezione, ed è solo nel 2009 che il film è arrivato sugli schermi degli italiani, su esplicita richiesta di Gheddafi (che in quegli anni aveva rapporti piuttosto stretti col governo Berlusconi). È soltanto da quest’anno che, grazie all’iniziativa di “Un Ponte Per” che ne ha acquisito i diritti, è possibile organizzare proiezioni ufficiali raggiungendo un pubblico più ampio».
Perché è importante recuperare quel preciso pezzo di storia italiana?
«È importante prima di tutto perché ci racconta qualcosa del modo in cui l’Italia ha cercato di costruire la sua identità di Stato-nazione fin dal dopo-unità. La totale rimozione delle nefandezze dell’epoca coloniale ha sicuramente contribuito a una narrazione auto-assolutoria, giustificativa, dell’espansione coloniale italiana in Africa. La rimozione di cui parlo è un’opera sottile: non si tratta di negare completamente l’esistenza di un passato coloniale italiano ma appunto di enfatizzarne i tratti gloriosi (ad esempio inaugurando un monumento a Rodolfo Graziani, il generale a capo di sanguinose campagne militari in Etiopia e Libia, ancora nel 2012), o di normalizzarne gli elementi più problematici. Quanti di noi sanno, per esempio, che l’espressione “ambaradan”, usata comunemente in italiano per indicare una gran confusione o un mucchio di roba, trae origine da una battaglia in cui morirono circa 20mila etiopi tra militari e civili? L’assenza di un’elaborazione collettiva di quell’esperienza, anche a livello letterario e artistico, rende queste cose molto più semplici».
Dal passato al presente. Cosa ci può insegnare quella memoria e cosa spera che possa insegnare agli studenti della nostra università?
«Come tutta la storia, ci insegna a comprendere meglio il presente, a e riconoscere dinamiche simili negli eventi odierni. Senza quel pezzo di storia è più difficile comprendere appieno i rapporti tra l’Italia e le sue ex colonie, sia in termini di flussi migratori che di interessi economici. È lì che si ritrovano le radici storiche del senso di superiorità che alimenta i razzismi di oggi: un senso di superiorità che è stato nutrito da decenni di iconografia, ricerca e produzione culturale che andava in quella direzione. Oggi le cose stanno cambiando: negli ultimi vent’anni e forse più si è assistito a un proliferare di studi a 360 gradi sul colonialismo italiano. Quello che resta assente è un ampliamento del dibattito ad un’opinione pubblica più ampia, che deve passare necessariamente per una volgarizzazione dei contenuti accademici anche attraverso una produzione letteraria, cinematografica, musicale. È per questo che pensiamo che la proiezione de “Il Leone del Deserto” sia importante. “Ma è un film finanziato da Gheddafi!”, diranno alcuni: è vero, è un film in cui “i buoni” sono palesemente gli uomini e le donne di Omar Mukhtar. È però anche uno sguardo critico sull’espansione coloniale italiana che da la possibilità di portare questo dibattito fuori dalle aule universitarie».