il libro
mercoledì 28 Dicembre, 2022
di Alessandro de Bertolini
Non basta un aggettivo per il viaggio di Valbusa. Ce ne vogliono almeno quattro: ambizioso, entusiasta, alpinistico e irredentistico. Era il 1902 e nei suoi pensieri c’era l’Adamello, Signora delle Alpi orientali. Sentiamolo dalle sue parole, un moto di passione e di energia. «Salire lassù per scendere poi nel Trentino; passare solo coi miei ski in quel regno per me ancora ignoto in mezzo al candore delle nevi (…), divenne ben presto fantastico pensiero, quindi proposito preciso, volontà assillante dell’animo mio, così pronto a sentire lo slancio dell’entusiasmo, come a convertirlo in sforzo dinamico di azione (…). Non pongo dubbio di avere tutto a favore. Per me si colora nell’ideale il sogno di redenzione del Trentino, ed io vado a farne la mia conquista affettiva. Excelsior!».
Ubaldo Valbusa nasce a Rovigo nel 1874, si laurea nel 1896 in Scienze naturali all’Università di Torino e il 24 marzo del 1902 decide di tentare la traversata dell’Adamello con gli sci in solitaria, impresa mai compiuta fino a quel momento. Quindici anni dopo, viene pubblicato nel 1917 dall’editrice Lattes di Torino il diario della sua spedizione con il titolo «Verso il Trentino», non a caso nel pieno della Grande Guerra. Costava 4,50 Lire e narrava di una delle prime esperienze di ski de randonnée. Il libro, eccezionale testimonianza bibliografica di valore alpinistico e politico, divenuto introvabile nell’edizione originale, è stato appena riedito in una pubblicazione a cura di Leonardo Bizzaro con un saggio storico di Stefano Morosini per Mulatero Editore. Bizzaro è esploratore e alpinista, scrittore, già responsabile della pagine di cultura e spettacolo per La Repubblica. Morosini, storico dell’alpinismo, ha firmato numerosi contributi sul tema e svolge attività di ricerca per diversi istituiti. «Volevamo rendere omaggio a Ubaldo Valbusa – spiega Bizzaro – personaggio di cui si sono perse le tracce, autore di uno dei primi tentativi della traversata dell’Adamello con gli sci e tra i fondatori del primo sci club in Italia, lo Ski Club Torino nell’anno 1901».
Emergono nel libro una serie così fitta di elementi storici e culturali da renderlo un tesoro straordinario di significati: la prima traversata dell’Adamello con gli sci (che viene riconosciuta proprio a Ubaldo Valbusa da Arnold Lunn, tra i più grandi pionieri di questo sport nella prima metà del ’900); la diffusione nelle Alpi dello sci (favorita dal successo internazionale della traversata della Groenlandia con gli sci ai piedi, compiuta nel 1888 dal fenomeno norvegese Fridtjof Nansen); la dimensione soggettiva delle convinzioni politiche personali (il naturalista torinese Valbusa intendeva testimoniare il «sogno di redenzione del Trentino», unendo fisicamente attraverso l’Adamello i territori lombardi con quelli trentini); le tensioni di una terra di confine nel passaggio tra i secoli XIX e XX (dunque il significato delle Alpi come terra di frontiera e il ruolo dell’alpinismo nelle dispute tra nazionalismi); e infine il cambiamento della montagna sia da un punto di vista naturale sia sotto il profilo culturale (nelle descrizioni di Valbusa si trovano le valli di un tempo, condizionate maggiormente dalla presenza dei ghiacciai, dalla deforestazione e non ancora interessate da un sistema infrastrutturale di tipo viabilistico ed escursionistico, dove la presenza delle strutture di accoglienza era praticamente assente).
«L’obiettivo di Valbusa – spiega Bizzaro – era quello di risalire la valle di Salarno (in Lombardia) fino all’omonimo passo (3.168 m.), attraversare il Pian di Neve, bivaccare all’addiaccio, salire la vetta dell’Adamello (3.539 m.) per poi riprendere il Pian di Neve e scendere per la vedretta del Mandrone. Quindi transitare e verosimilmente pernottare al rifugio Mandrone, imboccare la Val di Genova e giungere all’abitato di Pinzolo, per poi dirigersi dapprima a Tione e infine, raggiunta la Valle dell’Adige, entrare a Trento. Valbusa portava in spalla uno zaino del peso di 21 chilogrammi e aveva con sé provviste per 5/6 giorni, una prudente abbondanza rispetto ai 4 giorni che aveva posto come necessari per portare a termine la traversata».
Il significato politico che egli attribuiva alla sua impresa era così forte da rubargli il sonno. Risalendo l’Adamello da Saviore verso il Pian di Neve fece tappa al rifugio di Salarno, trascorrendovi la notte, dove «sognò il momento – raccontano Bizzaro e Morosini – nel quale, al termine della sua traversata e una volta entrato in territorio trentino, avrebbe incontrato sul percorso le guardie confinarie austriache». Sul punto, si esprimeva così Valbusa: «Non son certo di scansare ogni incidente coi gendarmi austriaci, specialmente per le fotografie (…) e mettermi magari in guardina della apostolica maestà di Cecco Beppe». Nel suo sogno, ricordano Bizzaro e Morosini, Valbusa vagheggiò addirittura una «colluttazione con un gendarme» dove i due protagonisti si «stringevano il collo a vicenda».
Nonostante la determinazione, l’impresa di Valbusa non ebbe successo. Durante la salita, Valbusa raggiunse quota 3.480 metri, quando un «colpo improvviso di vento mi rovescia – scrive nel diario – e scalpitando, in uno sforzo supremo riesco ad appendermi col bastone da ski, ma mi slogo alla spalla il braccio destro». Stefano Morosini racconta così ciò che accade in seguito. «Valbusa riuscì a ridiscendere lungo il medesimo percorso, ma le peripezie non erano terminate. Nei pendii scoscesi il rischio di valanghe era molto elevato, mentre una volta giunto in un’area più sicura, posta all’altezza del lago di Salarno, incrociò le tracce del recente passaggio di un orso, tracce che rivide quando passò ai lati del sottostante lago di Macesso. All’imbrunire, disceso ulteriormente e in condizioni di grande prostrazione, Valbusa si smarrì nel bosco e fu vinto dal sonno. La mattina del 30 marzo, domenica di Pasqua, le campane in festa provenienti da Saviore lo guidarono all’abitato, per poi ripercorrere il viaggio a ritroso fino a Torino».