La storia
martedì 11 Febbraio, 2025
di Sandro Schmid
A Torino, 80 anni fa, Emilio Fedrizzi – il partigiano «Giotto» veniva assassinato dai fascisti. La sua vita è stata tutta un’avventura. Nasce a Cadine nel 1894. Operaio, conosce Cesare Battisti e condivide i suoi ideali irredentisti e socialisti. Non è un caso che, a Trento, nei momenti di difficoltà, si sia rivolto a Ernesta Bittanti, moglie del martire. Sicuramente avrà conosciuto nel 1909 anche Benito Mussolini, allora segretario della Camera del Lavoro e giornalista del Popolo.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale è arruolato come Kaiserjager per combattere in Galizia. Dopo pochi mesi è prigioniero dei russi. Non è chiaro se sia stato lui «a passare volontariamente dall’altra parte». Nel settembre 1916, con un piroscafo partito da Arcangelo, è fra i primi a essere rimpatriato. Giunto in Inghilterra, si arruola, con altri italiani, serbi e cecoslovacchi come volontario in un Corpo di spedizione inglese alla volta di Salonicco dove arriva nel febbraio 1917. In Macedonia, contro l’esercito bulgaro-tedesco gli scontri sono durissimi. Gli assalti si trasformano in vere proprie carneficine. Ferito alla gamba sinistra, rientra a Torino nel maggio 1917.
Il tempo di conoscere e amare Lucia Bertini, figlia della veneziana Margherita de Marchi che lavorava alla Corte Reale. Ma lo spirito battagliero di Emilio non si placa. Nell’agosto del 1917, a Firenze è fondata la Legione Trentina Volontari di Guerra ed Emilio si precipita per farne parte e conoscere i migliori nomi degli irredentisti trentini. Nell’agosto del 1918 lo troviamo arruolato con il grado di caporale nel Terzo Reggimento Alpini e poi, nel Corpo degli Arditi.
Alla fine della guerra ritorna a Cadine, decorato con la «Croce di guerra». Nel 1919 nasce la figlia Ines: la futura notissima gallerista e pittrice trentina.
Emilio, negli anni Venti, si rifiuta di prendere la tessera del Fascio. Anche se, come ex legionario, avrebbe potuto servirsene per trovare un’adeguata sistemazione. Trova impiego come custode del Castello del Buonconsiglio, ma viene sospeso dal lavoro proprio per i suoi sentimenti antifascisti. A questo punto si trasferisce nuovamente a Torino. Lavora come operaio, riprende i contatti con gli antifascisti ed è attivo nella propaganda clandestina. Dopo l’8 settembre 1943, è con il movimento partigiano. Il 15 agosto 1944, lo troviamo a far parte del «Gruppo Monviso», poi confluito nella Brigata «Massimo Montano» della IX Divisione di Giustizia e Libertà. Nome di battaglia «Giotto» con il grado di Sottotenente e Commissario Politico.
Da un documento del Comittato di liberazione nazionale (Cln) si apprende che «Giotto» fa parte (forse è il capo) del Servizio segreto d’informazioni, assieme a «Milite, Cirillo, Sciuse, Prete, Italo, Menico e Pero».
Il Comandante del Cln di Torino Vittorio Negro scrive: «Giotto» aveva prestato servizio come informatore e con la formazione comandata da «Pipanero» per i rifornimenti ai partigiani combattenti. Il «Giotto» fu sempre esemplare sia per l’instancabile attività con il Servizio informazioni che per procurare viveri e indumenti, forniti da alcune ditte di Torino ai partigiani in montagna. Sospettato dalla milizia fascista, subisce un primo arresto. Prove certe non ci sono e viene rilasciato. Ma lui non volle interrompere il delicato e utilissimo Servizio. Nonostante, come suo comandante, per la sua sicurezza, avessi insistito di portarsi al nostro Campo, «Giotto» rimane al suo posto finché nel dicembre 1944 è arrestato nuovamente dai fascisti repubblichini. «Giotto» è sottoposto a pesanti torture, ma non parla. Per liberarlo, lo abbiamo inserito nella lista dei partigiani per uno scambio di prigionieri. I fascisti repubblichini accettano. Ma è tutta una miserabile finta. Siamo quasi a Natale. Alle ore 22 del 23 dicembre 1944, «Giotto» è caricato dai fascisti su un furgone alla volta del Comando della milizia di Via Asti 22. Tristemente celebre per le crudeltà e le uccisioni inferte ai partigiani. Ma, arrivati sul Ponte Vittorio Emanuele I, viene fatto scendere. Di colpo, la speranza di Emilio svanisce. Capisce che è la fine. Un pensiero alla moglie Lucia, che aveva tanto amato, e alle figliolette Ines, Emilia e Tullia la più piccolina che ricorda: «La sera mi addormentava raccontando storie e filastrocche». Nel buio della notte, la luce fioca dei lampioni illumina le persone come ombre. Emilio sente sotto di sé il gorgogliare del Po. Non ha nemmeno il tempo, o la voglia di reagire. Tre militi fascisti estraggono le rivoltelle e lo uccidono a bruciapelo. Il medico di guardia testimonierà: «Un colpo alla tempia destra, altri alla spalla, alla natica, alla bocca…».
I fascisti dichiarano di essere stati costretti a sparare per un suo tentativo di fuga e gettarsi nel Po. Il suo cadavere è abbandonato a terra senza documenti. Un passante, lo riconosce e avvisa la famiglia e i partigiani. «Tutti i partigiani rimpiansero in Giotto l’amico e il combattente che sfida impavido la morte, ma non tradisce». Solo nel 1992, il Comune di Trento, con il sindaco Lorenzo Dellai e l’Anpi, gli ha dedicato una targa nel Parco di Cadine.