La mostra
mercoledì 8 Marzo, 2023
di Stefania Santoni
Oggi è l’8 marzo, una data non qualunque: è la «Giornata internazionale della donna». E quindi un’occasione per riflettere sulla presenza delle donne nell’arte. È recentemente uscito per Einaudi uno studio sottoforma di saggio a cura di Katy Hessel, La storia dell’arte senza gli uomini. L’autrice s’interroga sul vuoto sostanziale delle donne nella storia dell’arte (come già fa fece Linda Nochlin nel celebre Why Have There Been No Great Women Artists?) e lo fa partendo da un’analisi dei dati. Da uno studio del 2019 emerge che nelle collezioni di diciotto tra i più importanti musei statunitensi, l’87% delle opere era frutto della mano artistica di uomini, di cui l’85% di uomini bianchi. A oggi, solo l’1% della collezione della National Gallery di Londra è rappresentata da artiste. E soltanto nel 2020 lo stesso museo ha organizzato un’esposizione dedicata a un’artista del passato, Artemisia Gentileschi. Sarà invece il 2023 la prima mostra personale dedicata a una donna artista negli spazi della Royal Academy of Arts di Londra (Marina Abramović), mentre soltanto una donna nera ha vinto il Turner Prize (Lubaina Himid) e solo nel 2022 per la prima volta alla Biennale di Venezia abbiamo trovato delle donne nere in rappresentanza di Stati Uniti e Regno Unito. Questi dati ci invitano a interrogarci e soprattutto ad agire, nel raccontare una storia dell’arte fatta (anche) di donne.
E proprio una donna sarà la protagonista della prossima mostra alla Paolo Maria Deanesi Gallery di Trento: Passano le nuvole si copre la luna di miele è la prima esposizione personale di Silvia Argiolas (Cagliari, 1977), la cui ricerca pittorica è attraversata da presenze ricorrenti, quali volti, corpi, parole, oggetti e simboli, figure e animali, che sembrano appartenere a un campionario privato al quale l’artista torna costantemente ad attingere, ribadendone di volta in volta il carattere enigmatico ed interrogativo.
Curata da Federico Mazzonelli, la mostra verrà inaugurata venerdì alle 18.00.
Le opere ci calano in una dimensione espressiva che si può definire contraddittoria. Argiolas sembra lavorare lungo un piano inclinato: dell’armonia e insieme della dissonanza, dell’autenticità e dell’artificio, quasi la sua pittura rappresentasse, in forme sempre diverse, ma costanti e riconoscibili, quella frattura-ferita che si apre tra il sentimento che nutriamo delle cose e i precetti attraverso i quali la realtà lo vorrebbe costantemente addomesticare.
Da un lato vi sono le cromie accese, le velature con lo spray industriale, l’arabesco pittorico nel quale tutto diviene felice trama decorativa, divertita e raffinata memoria fauve. Dall’altra, l’insulto espressionista, la deformazione grottesca, il tratto mostruoso e apparentemente liberatorio rispetto al corpo, al sesso, alla nudità, ma anche alla narrazione biografica, la cui presenza si pone sempre come specchio delle dimensioni ancestrali che la nutrono, quali l’appartenenza alla natura, il ciclo temporale della nascita, della morte, l’esperienza dell’amore, dell’odio.
Silvia Argiolas, da dove nasce l’idea di questa mostra?
«Questa mostra è un’evoluzione logica del mio linguaggio pittorico unito, senza nessuna forzatura, agli spunti che mi offre la vita e il quotidiano».
Quali sono le opere che ha scelto di esporre?
«Le opere che presenterò sono tutte recentissime e inedite, concepite appositamente per lo spazio. Si alterneranno quindi opere sia grandi che piccole, su carta, ma anche su tela, pensate in un dialogo continuo che esula dal supporto e dalla dimensione».
C’è tra le opere in mostra una a cui è particolarmente legata?
«Una in particolare non c’è; sono legata un pochino a tutte… le considero tutte figlie. Diciamo che in generale amo i lavori che trasmettono di più al prossimo e di conseguenza esistono».
Qual è il suo rapporto con il colore?
«Direi senza dubbio bellissimo: amo profondamente studiarlo attraverso i pigmenti puri. Il colore è il mio primo grande amore».
Quali temi sono prevalenti nel suo modo di fare arte?
«Sicuramente una costante è il rapporto percettivo della donna con tutti gli stereotipi che le si danno. C’è la sessualità, l’odio tra donne, la rappresentazione di atmosfere del quotidiano, l’amore, la malinconia, l’utilizzo di antidepressivi e tanto altro. Un altro aspetto e una costante che si troverà in mostra è una ricerca a cui lavoro da anni: si potrà osservarla nell’uso delle trame e degli intrecci nelle vesti, nei pattern a più livelli delle pareti, come se fossero stratificazioni emotive e caratteriali. Nell’esposizione sarà presente una serie di grandi carte dai colori fluorescenti e dai toni sintetici che ricordano i francobolli di acido da leccare, ma di grandi dimensioni».
Che cosa significa per lei essere una donna artista (penso anche alla storia della sua terra, un luogo decisamente femminile)?
«Non è facile trovare spazio per una donna artista, soprattutto in Italia: tutti si aspettano dalla donna uno stereotipo e devi mostrare sempre le stesse cose. Non puoi permetterti di essere libera, è un lusso che in Italia si concede spesso all’uomo e mai alla donna. Da donna per molti devi sempre sottolineare il bello delle cose, devi essere capace di non andare oltre e stare sempre al tuo posto. Il rimando che fa alla mia terra d’origine è affascinante, ma non mi trova d’accordo. La società sarda ora non è differente da qualsiasi altra purtroppo così come il posto che occupa la donna al suo interno. Se la conosci bene, oltre a una cultura e a una tradizione millenaria non del tutto conosciuta, quel che ti rimane è miseria e solitudine. Per questo molti decidono di partire. Una delle tematiche della mostra è anche appunto la solitudine, intesa come crescita interiore, ma anche decadenza. Le faccio l’esempio della ragazza che mangia giapponese, accanto ad un sedere con una rosa che fuma oppure alla figura del serpente, come rappresentazione stereotipata dell’abbandono alla tentazione e al peccato».
La mostra sarà visitabile fino al 13 maggio.
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