L'intervista
giovedì 19 Dicembre, 2024
di Sara Alouani
Fresca di pubblicazione (e anche di matrimonio), Takoua Ben Mohamed ci risponde dall’Oman dove da qualche tempo vive con il marito. Fumettista affermata a livello internazionale, nel 2019 ha ottenuto il premio come miglior imprenditrice dell’anno Fidapa (Federazione italiana arti professioni affari). Nata in Tunisia e cresciuta a Roma, ha fatto del disegno un compagno di vita che fin da piccola le ha permesso di comunicare con gli altri, soprattutto quando ancora non conosceva bene la lingua italiana. Da «Il mio migliore amico è fascista» (Rizzoli, 2021) alla sua ultima pubblicazione «Non stuzzicate la musulmana!» (Becco Giallo, 2024) Ben Mohamed, 33 anni, nei suoi fumetti dà voce alla piccola Taku (il suo alter ego) che con un pizzico di ironia e un inconfondibile dialetto romano tocca temi pericolosamente attuali come il colonialismo, l’islamofobia, la discriminazione e il razzismo in Italia. Il fumetto è «una terapia» che le ha insegnato ad esprimersi, ed è proprio la mini-Takoua vestita di rosa che si fa portavoce della scrittrice e che dice, senza peli sulla lingua, quello che la sua creatrice vorrebbe tanto urlare al mondo.
Takoua, perché ha scelto il fumetto?
«Direi che è più il fumetto che ha scelto me».
Perché?
«Ho sempre amato disegnare, fin da quando ero bambina. In Tunisia la mia famiglia era a pezzi a causa delle persecuzioni della dittatura di Ben Ali: ci hanno confiscato molti beni patrimoniali ma mia madre non mi faceva mai mancare un foglio e una matita per il disegno. Forse, proprio questa situazione ha alimentato la mia passione».
Ha continuato a disegnare in Italia?
«Nel 1999 ci trasferimmo in un paesino in provincia di Roma. Dovevo frequentare la terza elementare ma non parlavo né francese né italiano, quindi, mi venne naturale comunicare attraverso il disegno. Se dovevo andare in bagno, disegnavo un water, invece, se dovevo mangiare, disegnavo la merenda che avevo nello zaino. Le immagini per me sono state una salvezza, furono il mio unico modo per comunicare col mondo esterno».
Quale fu il suo primo fumetto?
«Durante la seconda Intifada, nel 2000, rimasi colpita dall’immagine (penso che ogni famiglia araba l’abbia ben in mente) della morte di Mohamed el Dorra con il padre. Il mio primo fumetto parlava dei bambini palestinesi. A 14 anni arrivò la mia prima pubblicazione che mi venne commissionata da una docente di sociologia dell’università di Padova».
E di cosa parlava?
«Trattava la questione del velo e delle donne nell’islam in chiave sociologica».
Una tematica molto complessa per un’adolescente…
«Sono nata in una famiglia di insegnanti e attivisti. A 10 anni, dopo gli attentati alle Torri Gemelle, andavo alle manifestazioni per la pace in centro a Roma, contro le guerre in Iraq e Afghanistan. Ricordo che le mie maestre erano disperate e si chiedevano che razza di genitori avessi. Alla recita di fine anno, in quinta elementare, scelsero me per fare il discorso sulla pace. Fu lì che iniziai ad interrogarmi sulla mia identità, sul perché le persone non capissero la mia religione: domande che generalmente ci si pone più tardi. A Roma ho iniziato a percepire il razzismo, la gente era come incattivita».
Lei da quando porta il velo?
«Da quando ho 12 anni».
È stata una sua scelta?
«Certo! Anzi, mio padre era contrario. La mia famiglia diceva che ero troppo piccola per capirne il significato; che avrei dovuto prima imparare a conoscere la religione, il digiuno, la preghiera. Mi avevano anche messa in guardia: sapevano che sarebbe stato pericoloso per me indossarlo».
La sua è stata una sfida?
«Anche, o soprattutto. Sono una persona molto testarda: volevo capire come si sentivano le mie sorelle più grandi che venivano insultate e prese di mira perché velate. Ho subito bullismo, sono stata discriminata ma questo non ha fatto altro che rafforzare la mia volontà di indossare il velo».
La sua famiglia l’ha supportata nella sua carriera?
«Pensa che la mia prima mostra fu in moschea a Roma. Mio padre mi disse “questi disegni sono bellissimi, devi mostrarli al mondo”. La comunità islamica è molto fiera del mio lavoro e spesso organizzo delle mostre proprio lì, dove tutto è cominciato. Sono molto fortunata. Lo dico perché ci sono famiglie che impediscono alle figlie di fare le infermiere perché è haram (peccato) o di entrare nel mondo della moda. Non conoscono la storia della religione. Inoltre, dovranno pure vestirsi anche le musulmane o no? (ride ndr)».
Di esempi ce ne sono tanti, basti pensare alla stretta sulle donne in Afghanistan, in Iran, mascherata da islam.
«Non bisogna cadere nel tranello! È una questione di potere politico: usano la religione per ottenere l’attenzione delle persone, per controllare il popolo. In questo modo la gente inizia ad avere paura e non si ribella più. È una forma di persuasione che abbiamo ereditato dai coloni francesi».
In che senso?
«In Algeria, durante la guerra, i coloni francesi usavano gli imam per convincere il popolo a non ribellarsi alle truppe utilizzando la religione come anestetizzante. Ricordo che il colonialismo non ha mai cessato di esistere. E la prova più grande è quello che succede in Palestina».
Nei suoi fumetti «Crescere in Mozambico» e «Un’altra via per la Cambogia» lei ha trattato anche questo tema…
«Sono stata in Cambogia e Mozambico, paesi che vedono il colonialismo ancora vivo. C’è il traffico di essere umani, sfruttati nelle aziende tessili multinazionali che (guarda caso) sono occidentali e soprattutto europee. Oltre a questo scenario c’è anche quello del turismo sessuale e Italia e Francia sono i primi Paesi a praticarlo. È un colonialismo che non ha più la forma militare ma politico-economica».
Nelle sue pubblicazioni si contraddistingue per il linguaggio molto ironico…
«Solo quando parlo di me, però. Quando racconto degli altri, delle guerre, non riesco a fare ironia. Non delle disgrazie altrui. Nelle novel autobiografiche, invece, dove affronto temi come il razzismo, i pregiudizi, uso la chiave ironica che è fondamentale per attirare l’attenzione del lettore che sia interessato o disinteressato all’argomento. C’è addirittura chi, leggendo, si rispecchia nella persona razzista e si fa una gran risata dicendo “anche io mi sono comportato così ma non me ne sono reso conto”».
La protagonista dei suoi fumetti è Taku, possiamo definirla il suo alter ego? Ce la presenti…
«È il mio alter ego a tutti gli effetti. È la parte migliore di me: dice quello che vorrei tanto urlare al mondo ma che non oso pronunciare. È la me più sfacciata. È un personaggio che mi ha accompagnato nella vita, è la mia migliore amica e negli anni mi ha insegnato tanto. Col tempo ho imparato, grazie a lei, a non mordermi la lingua. Taku è stata una terapia: avrei voluto andare dallo psicologo ma nessuno ancora sa trattare i complessi delle seconde generazioni come me. Il fumetto mi ha salvata».
Visto che parla di seconde generazioni, è inevitabile chiederle una riflessione sulla cittadinanza, visto che l’ha ottenuta solo pochi anni fa…
«È una questione di diritto. La Costituzione italiana è chiara e bisogna partire da lì. Tra i principi fondamentali c’è il divieto di discriminare e, invece, le leggi italiane sono piene di discriminanti a partire da quella sulla cittadinanza. Manca lo ius soli, e con questo stiamo discriminando un’intera generazione che fa parte di questo Paese, che è attiva in questo Paese ma che non è ritenuta tale».