L'intervista
martedì 5 Marzo, 2024
di Simone Casciano
C’è un’urgenza netta nella voce di Olga Karatch. La vincitrice del premio Langer 2023 e candidata al premio Nobel per la pace 2024, ascolta con pazienza le domande dei giornalisti, ma quando prende la parola è un fiume in piena che cerca di comunicare non solo l’importanza delle sue idee e lotte non violente, ma anche la necessità che si instauri velocemente attorno ad esse una collaborazione il più ampia possibile. Un patto tra le nazioni che possa in definitiva portare alla pace per l’Ucraina e alla libertà per la Bielorussia. Sono state proprio le sue idee e le sue iniziative politiche ad esserle costate l’esilio dalla «sua» Bielorussia. Olga Karatch, attivista e giornalista, fondatrice dell’associazione «Our house» (la nostra casa) ormai da dieci anni vive in esilio, recentemente a Vilnius in Lituania e da lì porta avanti le sue azioni politiche. Quelle attività che le sono valse il premio Alexander Langer e che, su invito del Forum trentino per la pace e i diritti umani, l’hanno portata a Trento per un doppio appuntamento nella giornata di oggi. In mattinata ci sarà un incontro con gli studenti e le studentesse del liceo Sophie Scholl di Trento. Alle 18 poi è stato organizzato un evento aperto a tutta la cittadinanza. Nella sala Falconetto di Palazzo Geremia, in via Belenzani, Olga Karatch dialogherà con Giorgio Comai, giornalista di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa. Quelle stesse idee, che le sono valse il premio Langer e la candidatura al premio Nobel per la pace, sono però anche quelle che rendono precaria la sua posizione. A Karatch infatti, nell’agosto scorso, la Lituania ha rifiutato la sua richiesta di asilo politico. Sembra un paradosso per una strenua oppositrice del regime di Lukashenko e di quello di Putin, ma che trova una spiegazione nella linea profondamente non violenta portata avanti da Karatch. L’attivista, dopo essersi a lungo occupata della condizione delle donne e dei bambini bielorussi, ha lanciato una campagna, «No means no» (No vuol dire no, ndr), per il supporto degli obiettori di coscienza, ossia di quei soldati, bielorussi, russi, ma anche ucraini, che decidono di ripudiare la guerra. Un gesto rivoluzionario, ma che deve essere supportato secondo Karatch.
Olga Karatch ci spiega il senso della sua campagna?
«È una campagna davvero nuova per me. Per la prima volta mi sto occupando di uomini e non di donne o bambini. Con la mia associazione abbiamo ragionato a lungo su come potevamo dare il nostro contributo per fermare la guerra. Abbiamo capito che dovevamo lavorare sull’obiezione di coscienza, vogliamo rubare a Lukashenko il suo esercito e per farlo abbiamo bisogno di sostenere quei soldati e quelle persone che non vogliono partecipare alla guerra in Ucraina. Abbiamo capito che il modo migliore per aiutare l’Ucraina era fermare i soldati prima ancora che invadessero il paese. Per questo abbiamo lanciato il nostro messaggio ai giovani di rifiutare le lettere di convocazione o di richiamo alle armi. La Bielorussia è un paese fortemente militarizzato. Dal 2022 il Ministero della difesa bielorusso ha organizzato campi di addestramento militare che hanno coinvolto oltre 18.000 minori, di cui 2.000 sono stati selezionati per l’uso delle armi».
Quanti sono gli obiettori di coscienza in Bielorussia e in Russia?
«Sappiamo che nel 2022 circa 400 uomini in Bielorussia sono stati condannati per essersi rifiutati di arruolarsi nell’esercito. Attualmente, secondo fonti ufficiali, sono circa 5mila i giovani bielorussi che sono scappati sottraendosi alla chiamata alle armi. Si tratta, probabilmente, solo di una parte, il numero totale è più grande. Per la Russia è più difficile fare stime, ma crediamo che anche qui ci siano rifiuti nell’ordine delle migliaia».
Un dato positivo?
«Certamente, il problema è che non viene fatto abbastanza per aiutare queste persone».
In che senso?
«Se un giovane rifiuta di arruolarsi rischia la prigione, torture e anche di peggio in Bielorussia. Quindi deve scappare, non può farlo prendendo un aereo, perché essendo stato convocato gli è proibito lasciare il paese, quindi non può fare altro che muoversi verso paesi confinanti con la Bielorussia: Polonia, Lituania e Lettonia. Il problema è che spesso questi paesi non riconoscono gli obiettori di coscienza come rifugiati, non li accolgono anzi li rimandano indietro e questo scoraggia l’obiezione di coscienza e la diserzione dall’esercito di Lukashenko».
Cosa chiedete?
«Che l’unione europea riconosca ufficialmente lo status di rifugiati ai russi, bielorussi e anche ucraini che fanno obiezione di coscienza. Crediamo davvero che questo possa avere un impatto serio sulla guerra. Aiutare le persone a dire di no ad essa contribuirà a farla finire prima».
C’è urgenza?
«Sì, assolutamente. La Bielorussia si sta preparando, è possibile che tra la primavera e l’estate le truppe di Lukashenko entrino in Ucraina».
Com’è vista la guerra in Ucraina dalla popolazione bielorussa?
«Molto negativamente, tanti bielorussi leggono e parlano ucraino, quindi capiscono benissimo costa sta succedendo. La maggioranza della popolazione è contraria alla guerra, anche tra chi è favorevole a Lukashenko. Bisogna poi tenere presente che molte famiglie hanno parenti ucraini e russi. Questa guerra ha spaccato e diviso famiglie intere. È fondamentale tornare a parlarsi».
La Bielorussia è stata teatro di forti proteste contro il regime nel 2020/21, ma alla fine Lukashenko è rimasto in sella. Qual è l’eredità di quel movimento?
«Ci penso spesso. Tutti noi ne parliamo e ci chiediamo se sia stato giusto condurre una protesta assolutamente non violenta. A tre anni di distanza ci sono molteplici voci che sostengono sia stato un errore, che con la violenza avremmo ottenuto il nostro obiettivo. Ci sono bielorussi che oggi combattono accanto agli ucraini e pensano un domani di combattere per liberare la Bielorussia. Credono che questi metodi violenti siano il modo più veloce per raggiungere il nostro obiettivo. Io non lo credo, penso che la via della non violenza sia sempre quella giusta. Credo che dobbiamo bussare ad ogni porta fino a quando ogni bielorusso non vorrà che il regime finisca. Abbiamo già visto che si può fare».
In che senso?
«Nel 2018 lanciammo la campagna «Children – 328» per denunciare le incarcerazioni di massa di minori in Bielorussia attraverso l’articolo 328. Nel paese molti minori vengono incarcerati per piccoli reati legati alla droga e poi utilizzati come veri e propri schiavi nelle fabbriche e nei campi di lavoro del regime. Quando abbiamo lanciato la campagna molti bielorussi non capivano, pensavano fosse giusto punire chi, anche minore, fa uso di droga.
Ora hanno capito le ingiustizie che sono state compiute e la protesta si è allargata a macchia d’olio e la popolazione non accetta più queste punizioni. Purtroppo il prezzo da pagare, affinché tutti nel paese se ne rendessero conto, sono state un numero incalcolabile di incarcerazioni, sfruttamenti e torture».
Le è stato conferito il premio Alexander Langer, ne conosceva la storia e il pensiero? Cosa ne pensa?
«Certo che lo conosco.
È una figura storica, trovo impressionante ed ammirevole il suo contributo all’idea di pace e soprattutto alle pratiche di pace. Anche oggi come ieri avrebbe detto “meglio un anno di negoziati che un giorno di guerra”. Lui già tanti anni fa parlava di corpi di pace, un’idea potente, un’intuizione da recuperare. Quella è la strada che dobbiamo tornare a seguire. Abbiamo bisogno che le Nazioni Unite tornino ad avere un ruolo apicale nella risoluzione dei conflitti, ci servono anche figure super partes che possano fare da mediatrici, grandi uomini come Papa Francesco. Mi rendo conto che le idee di Langer non siano popolari ultimamente, ma proprio per questo dobbiamo tornare a seguire il suo percorso. Forse più difficile, ma sicuramente più giusto».
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