La storia
domenica 18 Febbraio, 2024
di Davide Sgrò
«Ad un corso di italiano tenuto a Lavis, alla domanda “come si dice scarpe in italiano?”, i ragazzi stranieri rispondevano “Gadotti!”». Così si legge nella presentazione della storica bottega lavisana «Calzature Gadotti», che quest’anno festeggerà il settantesimo anno di attività. Ed è proprio così: non sono molte infatti, al giorno d’oggi, le realtà commerciali che riescono a radicarsi nella memoria collettiva di una comunità, e molto sicuramente dipende dalla passione e dall’amore che gli artigiani mettono nello svolgimento del proprio mestiere. Ecco, se la famiglia Gadotti si appresta a spegnere settanta candeline, forse significa che quella passione i lavisani l’hanno proprio percepita.
La storia della famiglia di calzolai parte all’inizio del secolo scorso, intorno agli anni Venti, quando Giovanni Gadotti lavora come calzolaio presso il Calzaturificio Trentino a Trento. Nel 1927 nasce Mario, suo figlio, che nel 1942 inizia un apprendistato durato dodici anni prima presso il calzolaio Crepaz, poi presso la bottega di Ernesto Obrelli a Lavis e infine presso la ditta Giacomoni a Trento. Nella sua Lavis fa ritorno nel 1954, quando decide di mettersi in proprio e aprire una sua bottega.
L’attività così parte in via Matteotti, dove tutt’ora è situata. Inizialmente, però, si trattava di una piccola stanzetta al piano terra, come racconta Marco, classe 1956 e figlio di Mario: «Accanto a noi c’era la Trattoria Vittoria, nel resto dello spazio c’erano le stalle, il magazzino e al piano di sopra abitava la mia famiglia. Io ho imparato da nonno Giovanni a cucire a macchina le scarpe, ero in prima elementare. Nonno creava le scarpe, e andava a far riparazioni casa per casa: all’inizio si trattava soprattutto di questo. A cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta si iniziava a vendere, ed era un’attività molto redditizia». L’attività così inizia ad espandersi ed arriva fino in via Mulini dove al piano terra di casa Gadotti apre un nuovo negozio: «Era un po’ fuori, così nel ’68 siamo tornati in via Matteotti. Poi abbiamo acquistato la Trattoria Vittoria, ristrutturando tutto lo spazio e ampliando la nostra attività».
Da questo punto in avanti, l’attività di famiglia prosegue attraverso i decenni, cavalcando le nuove tendenze e adattandosi a un mercato che cambiava così come cambiava la società. Quel che è certo, è che la famiglia Gadotti non si è mai tirata indietro di fronte alle sfide, ed è per questo forse che la comunità si è affezionata alla bottega. «Sicuramente per tanti clienti affezionati è rassicurante sapere che andiamo avanti – spiega Marco – d’altronde con tutto quello che abbiamo fatto per arrivare fin qui, chiudere sarebbe stato un delitto. Per qualche anno abbiamo avuto un negozio a Trento, poi però siamo tornati a Lavis, c’era troppo stress in città qui si respira un po’ di più: la gente si approccia a te come persona, non solo come venditore. Nei paesi è rimasto il rapporto interpersonale: ci chiedono ancora consigli, ci ringraziano e non è scontato. L’esperienza ripaga ed è garanzia di qualità».
In 70 anni tante le cose che sono cambiate: «Anzitutto il modo di vedere le cose. Oggi la gente in generale ha più scelta e predilige il nuovo mentre una volta si lavorava molto con le riparazioni, e le persone rimanevano in zona, non ci si spostava molto. Anche la conoscenza dell’articolo è diversa: noi calzolai sappiamo cosa vendiamo e non si tratta solo di durabilità del prodotto, c’è meno attenzione a cosa si compra e a volte manca la professionalità. Qualche cliente fidelizzato mi chiede ancora di sistemare qualche tacchetto, qualche cucitura, ma quando non ci sarò più io, anche queste piccole cose scompariranno: con la vendita online si fa fatica a far sopravvivere certe tradizioni, bisogna adattarsi e accontentarsi».
Un mestiere con la data di scadenza insomma: «Per fortuna io e mia moglie Margherita abbiamo potuto passare il testimone a nostra figlia Federica però sì, i calzolai non resisteranno a lungo: noi siamo in pensione, ma con un nipotino piccolo diamo ancora una mano in bottega. Per fortuna Federica era già abituata a lavorare in settori commerciali, e così ha scelto, prendendosi l’onere di mandare avanti l’attività di famiglia. E chissà che un giorno anche il mio nipotino Noah non scelga di continuare la tradizione, sarebbe la quinta generazione. Certamente, se non ci fosse stata questa possibilità del cambio generazionale avremmo chiuso».
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