le storie

venerdì 9 Febbraio, 2024

Le sbarre, gli allenamenti e la voglia di riscatto. Le storie dei detenuti nel progetto dell’Aquila Basket: «Così pensiamo ad altro»

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Il coach Marco Crespi nella casa circondariale di Trento: «Tutte le volte che entro e li vedo correre sono felice»

Si apre il cancello. E si oltrepassa la soglia. Primo box di controllo: si lascia la carta d’identità a un agente. Poi si attraversa una strada e si accede a un’altra struttura. Telefono, chiavi, giubbotto: finisce tutto in un armadietto. Si apre e si chiude un’altra porta in alluminio. Si torna all’aperto: un piazzale squadrato da muri. Altra porta, altra struttura, l’ultima. Si consegnano nome e cognome a un altro agente di polizia penitenziaria. Ora il portone automatico schiude a corridoi larghi e pallidi. Le finestre sono rinforzate dalle inferriate. La luce entra quadrettata anche dai fori sul soffitto. Si superano tre cancelli in ferro battuto. Si arriva a un ampio atrio circolare. I «bracci» confluiscono tutti qui. Incontriamo i ragazzi. E ci inoltriamo nel corridoio che porta alla palestra.
Le linee tracciano un campo da calcetto. Sono state disegnate su un tappeto celeste cielo. C’è un solo canestro, appeso alla parete laterale. I ragazzi sono schegge. Gravitano attorno alla rete da basket come elettroni. I loro volti, bui negli occhi, trasudano energia. «Per noi è un modo per scappare dallo stress e pensare ad altro – dice Issam – Abbiamo chiesto di poterci allenare due volte alla settimana, ma non è possibile».
Questo è l’ultimo allenamento. Da novembre Aquila Basket ne organizza uno alla settimana. È il terzo anno che «One Team», progetto di responsabilità sociale dell’Eurolega, entra nella casa circondariale di Spini di Gardolo. Il coach è Marco Crespi, allenatore, telecronista sportivo, attuale direttore della Dolomiti Energia Basketball Academy. Chiama tutti a raccolta. Si stringono in cerchio e si danno la carica con un urlo collettivo. Ora si può iniziare.
Il coach li divide in due gruppi. Si mettono in fila dietro la linea di fondo campo, una squadra da una parte e una dall’altra. Uno alla volta devono palleggiare fino all’estremità opposta, toccare il muro e poi tornare indietro. Se la palla sfugge alle mani si ricomincia. Vince il gruppo che impiega meno tempo. Ognuno è responsabile del destino della propria squadra. Una staffetta che ordina e restituisce senso a quell’energia che pervade la palestra. «Per loro rappresenta un momento di normalità. Allo stesso tempo, lo sport richiede disciplina e rispetto delle regole, e contribuisce al benessere psicofisico», considera la direttrice della casa circondariale, Anna Rita Nuzzaci.
Aziz indossa una divisa della Roma di qualche anno fa. Porta la maglia di Dzeko, ma ha la velocità e la statura di un esterno alto. Nelle pause fra un esercizio e l’altro gli viene quasi naturale palleggiare con i piedi. «Ho giocato al Gardolo per quattro anni – racconta accennando un sorriso – Poi ho avuto problemi e sono finito qui». Gift corre dietro alla palla da basket con un paio di jeans strappati e la t-shirt nera di One Team. Quando il coach spiega cosa fare, lui si tuffa nell’aria esibendosi in capriole. Mustapha è il veterano della squadra. Collins custodisce gelosamente un album con petali di cartone. «Ci sono le foto di mia figlia e mia moglie – spiega mentre comincia a sfogliare l’album – Questo è un disegno che ho fatto per mia figlia. La vedrò al colloquio». Poi chiede a tutti di mettere una firma su una delle pagine: vuole ricordare questo giorno.
È l’ultimo allenamento appunto. Sono passati novanta minuti. È ora di tornare in cella. Gli ultimi tiri al canestro sembrano ancore. Si stringono di nuovo in cerchio. Parla il coach: «Tutte le volte che entro e vi vedo correre sono felice. Grazie». Le parole precedono un abbraccio, accompagnato da un altro urlo collettivo. Si esce dalla palestra e si ripercorre lo stesso corridoio fino al grande atrio. I volti dei detenuti sono meno carichi di energia. Gli ultimi saluti e poi le strade si dividono.
«È gente che, non solo ha bisogno, ma ti restituisce con energia, emozione e gioia quel poco che gli dai. E ti ringraziano. Mi mancherà il loro grazie», dice con un po’ di commozione Crespi mentre riprende il giubbotto dall’armadietto. One Team è tutto questo. «Lo sport è uno strumento di inclusione sociale: lo pensiamo perché ne abbiamo esperienza – spiega il One Team Manager, Massimo Komatz, a fianco a Stefano Trainotti, coordinatore dei progetti di AquiLab – Qualche anno fa quando avevamo pensato al carcere ci sembrava che l’idea dello sport come strumento di inclusione fosse al massimo livello. Il carcere rimane un posto della comunità, non è fuori dalla comunità. Dentro le comunità di persone ci sono le cose belle e le cose brutte, i traguardi raggiunti e gli errori commessi. Lavorare in questi ambiti significa lavorare per tutta la comunità». L’inclusione si intreccia con la cura. «La sofferenza psicologica e psichiatrica si curano a partire dall’instaurarsi di relazioni positive e finalizzate. L’attività sportiva – conclude Komatz – è fatta anche di questo, oltre che di attenzione e cura per il proprio corpo, che è una delle espressioni del nostro essere e che non si può vedere disgiunto dall’anima o dalla psiche». Si oltrepassa la soglia. E si chiude il cancello del carcere.