Cultura

martedì 15 Agosto, 2023

L’epopea di Griffi su e giù per le «Ferrovie del Messico»

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Il libro di Gian Marco Griffi è tra i casi letterari dell'anno. L'intervista all'autore

Una guardia nazionale repubblicana ferroviaria di Asti incaricata di disegnare una mappa delle ferrovie del Messico, necessaria al Terzo Reich (ma lui non lo sa) per trovare l’arma che risolverà la Seconda guerra mondiale. Un libro introvabile e una bibliotecaria ineffabile, una ricerca stravagante e una sfilza di personaggi improbabili, in un romanzo enorme (oltre 800 pagine, per quanto di piccolo formato, l’editore è Laurana) da cui però, una volta iniziato, staccarsi è impossibile. «Ferrovie del Messico» è tra i casi letterari dell’anno.
Libro dell’anno per «Fahrenheit», il popolare programma letterario di Radio Tre, semifinalista allo Strega, recensioni strabiliate, ristampe su ristampe, traduzioni all’estero. Se lo aspettava?
«Ovviamente no. Volevo scrivere un romanzo d’avventura a mio modo, certo con parti più letterarie di altre, ma comunque scritto nel modo più popolare possibile. Quindi speravo che potesse piacere, ciò nonostante non mi aspettavo che potesse raccogliere un successo del genere».
La trama è strabordante, come la maestria nell’incastrarne gli elementi l’uno con l’altro. Quanto tempo ha impiegato per scriverlo?
«Erano temi e storie che mi portavo dietro da tempo, però al grosso del romanzo, dal punto di vista dell’intreccio e della sua architettura, ho iniziato a lavorare nell’autunno 2020 e fino al marzo 2022. Sono stato avvantaggiato dal lockdown: il Piemonte era zona rossa e ho avuto quattro-cinque mesi in cui avevo tempo per dedicarmi solo alla scrittura. In qualsiasi altro periodo storico, ci avrei impiegato molto di più».
Lei lavora a un circolo del golf. Ed è un elemento, quello del golf, che rispunta anche nel libro.
«Sì, dirigo un circolo tra Asti e Alessandria, due campi da diciotto buche, con resort da quaranta camere e ristorante. Il mio lavoro è quello, scrivo per passione».
Cesco, il protagonista di «Ferrovie del Messico», soffre costantemente di mal di denti. È chiaramente un’allegoria. Ma di che cosa?
«In effetti il mio è un romanzo che si può definire d’avventura, d’amore, o un romanzo storico. Ma anche romanzo odontoiatrico. Il mal di denti è una parte fondamentale e ha un duplice significato: da un lato, il dolore di Cesco simboleggia il suo mal di vivere, la sua incapacità di prendere una decisione rispetto al mondo che lo circonda. Cesco non è fascista, ma non è neppure antifascista. Non si arruola tra i partigiani perché non ne ha voglia e allo stesso tempo non è un vero repubblichino, si arruola perché non ha di meglio da fare. È in balia degli eventi, stralunato e assente a se stesso. Il mal di denti mi è servito quindi per tenerlo ancorato alla terra».
Il vertiginoso intreccio si svolge in un periodo tragico della nostra storia. Eppure molte pagine hanno il timbro del grottesco.
«Sì, l’ho affrontato con ironia. Come nella parte dello scherzo del treno, perché quello era un periodo tragico in cui anche uno scherzo poteva causare la morte di una persone. Ma allo stesso tempo era un periodo in cui neppure si sapeva chi comandava. In generale, è un racconto di persone al margine della storia, che vivono quasi da sradicate in casa propria, dove improvvisamente vedono piombare i nazisti. E quindi non riconoscono più le proprie vite».
La struttura del romanzo ha fatto parlare molti critici di «opera-mondo». È una definizione impegnativa. La trova d’accordo?
«Per certi aspetti ci sta, anche se parlerei più di parodia di un romanzo enciclopedico. Io però mi ritrovo meglio nella definizione di romanzo epico picaresco. Il 1944 che racconto, comunque, non è esattamente il nostro, affiorano anche elementi fantascientifici. Quindi è anche un romanzo fantastico. Poi sta al lettore dare la propria interpretazione».
Oltre alla trama, inesauribile, colpisce anche la miriade di riferimenti letterari. Sembra un po’ un film di Quentin Tarantino: un plot a incastri annegato nel citazionismo cinefilo.
«La letteratura è la mia grande passione. Mi piace utilizzare riferimenti letterari come se fossero parole di un dizionario, per cercare di arricchire la lettura della narrazione. Quindi riferimenti non solo a determinate opere, ma anche più in generale a topoi letterari: la discesa nell’aldilà, ad esempio, è una classica catabasi. Trattandosi poi di un romanzo d’avventura, la ricerca ossessiva di un qualcosa è pure un elemento chiave. In questo caso il Sacro Graal è un libro, che apparentemente non si trova e dovrebbe offrire una soluzione al problema di Cesco di tracciare una mappa delle ferrovie del Messico. Sono tutti topoi letterari».
A proposito del capitolo in cui compaiono Hitler ed Eva Braun, la critica ha scomodato addirittura Ionesco.
«Quel capitolo poteva essere scritto in più modi. Linguaggio, ritmo e atmosfera mi sono venuti dal teatro dell’assurdo, che ho messo al servizio della narrazione. La chiave farsesca di un certo Ionesco è un buon esempio di come ho cercato di servirmi della letteratura per raccontare la mia storia».
«Ferrovie del Messico» supera le ottocento pagine. L’editore ha mai avuto tentennamenti?
«Avrebbe potuto essere anche più ampio, via via mi sono sbarazzato di diversi episodi. Poi Giulio Mozzi, l’editor, si è innamorato del libro. Sì, qualche piccolo mancamento l’editore lo ha avuto, ma alla fine forse ne ha avuti di più il tipografo».
Dopo un successo del genere, vive la difficoltà di una seconda opera allo stesso livello?
«Non ci penso. Scrivo solo se ho qualcosa da raccontare. Non potrei neppure immaginare di farlo senza un progetto in mente, senza qualcosa che mi brucia dentro. Ora sto scrivendo racconti, nulla cioè che si possa ascrivere alla forma romanzo. E poi in questi mesi non ne ho avuto neppure il tempo, fra tante presentazioni. Per “Ferrovie del Messico” avevo già in mente tante storie, ma non sapevo come riunirle. Poi a un certo punto ho avuto chiara l’idea che serviva una trama insensata, dentro la quale costruire un’architettura in cui muovere il personaggio. Ecco, tutto questo ancora non si è verificato. E comunque ho anche ben chiara la dimensione del fallimento».
Vale a dire?
«Ho impiegato quindici anni a cercare di farmi pubblicare una raccolta di racconti, senza riuscirci. Il mio secondo libro è poi stato letto da cinquanta persone. So cos’è un flop, conosco la frustrazione. Quindi, prima di scrivere un secondo romanzo, voglio esserne pienamente soddisfatto. Ci vorrà il tempo che ci vorrà. Chissà, magari il prossimo inverno, quando si gioca meno a golf, potrebbe essere il momento buono per provarci».