sabato 5 Agosto, 2023
di Carlo Martinelli
«Un complotto permanente contro il mondo intero» era la definizione che Guy Debord aveva dato alle edizioni Champ Libre che lo pubblicavano. Fondatore dell’Internazionale situazionista, autore de «La società dello spettacolo», nel corso della sua vita ha fatto di tutto per dispiacere ai suoi contemporanei, eppure, dopo la sua morte, è stato trasformato in un’icona.
In una raccolta di saggi – «Guy Debord. Un complotto permanente contro il mondo intero» (Mimesis, 172 pagine, 17 euro) – il filosofo di origini tedesca Anselm Jappe, professore di Estetica, autore nel 1993 della prima monografia consacrata a Debord, si propone di salvare il radicalismo della critica che l’autore francese oppose alla società capitalista, riscoprendo l’estrema attualità di questo originale filosofo contemporaneo.
Perché Guy Debord, «dottore in niente», non smette di lanciare uno sguardo lucido sul nostro tremebondo presente. Uno sguardo implacabile che viene da lontano. 14 novembre 1967: arriva nelle librerie francesi «La Société du Spetacle». Un piccolo editore, copertina anonima, nessuna immagine, tiratura limitata. Mezzo secolo dopo, non è soltanto un libro di culto — più citato che letto, dicono i maligni — ma è anche diventato un modo di dire, la didascalica, lucida definizione del mondo (certamente della sua parte occidentale) che abitiamo. Oggi ci arrabattiamo con le fake news, le notizie false. Pare di vederlo il ghigno sardonico di Guy Louis Marie Vincent Ernest Debord — era nato a Cannes il 28 dicembre 1931, morirà il 30 novembre 1994, sparandosi un colpo di fucile al cuore — nell’indicare la tesi numero 9 (il libro ne conta 221): «Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso». 1967, prima di internet, prima degli smartphone, prima del consumismo eletto a sistema, prima del trionfo del regno delle merci, prima del virtuale che divora il reale, questo l’incipit: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione». È già il Debord che si basa sui testi di Hegel e di Marx utilizzando quello che sarà un marchio di fabbrica, il détournament, ossia una riscrittura creativa. Scrive: «Lo spettacolo non è un insieme di immagini ma un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini». Jappe fa i conti con la biografia di un uomo misterioso ed inaccessibile come pochi. In un certo senso, un avventuriero. Con la sua prosa scintillante e chirurgica, erede di quelle letture classiche che in gioventù aveva divorato — Isidore Ducasse conte di Lautreamont e il Cardinale di Retz — ce l’ha fatto sapere: «La saggezza non arriverà mai. Noi portiamo benzina là dove c’è il fuoco». Orfano di padre, passa la giovinezza a Cannes. A 18 anni va Parigi, scopre il surrealismo, fa parte della pattuglia dei Lettristi, scandalizza il festival di Cannes quando, nel 1952, presenta un film, «Hurlements en faveur de Sade»: dura 64 minuti e nei primi 24 lo schermo è nero. Organizza una clamorosa contestazione a Charlie Chaplin, definito «saltimbanco dei buoni sentimenti». Nel 1957, in un paesino ligure, Cosio d’Arroscia, fonda l’Internazionale Situazionista. Nel momento del massimo splendore l’IS conterà settanta membri, sarà dilaniata da rotture, scissioni, clamorosi contrasti, espulsioni. Eppure il «verbo situazionista», figlio dei Consigli Operai e di «Socialisme ou Barbarie», avrà grande influsso sui movimenti di contestazione. E nel corso degli anni, mentre l’ideologia leninista o stalinista — che Debord e i suoi combatterono con virulenza — perde forza, lo spirito libertario della pattuglia situazionista spargerà semi ovunque. A Giorgio Agamben, rispose: «Non sono un filosofo, sono uno stratega». Ma il passare del tempo conferisce un tono più malinconico ai suoi scritti e ai suoi film. Nel 1984 viene assassinato, in circostanze mai chiarite, il suo amico ed editore Gerard Lebovici. E Debord accentua il suo scontroso isolamento. «Ho sempre ritenuto colpevole parlare a dei giornalisti, scrivere sui giornali, apparire in televisione, ossia collaborare per poco che sia alla grande impresa di falsificazione della realtà condotta dai mass media». Sono gli anni di «Panegirico», sorta di autobiografia, cui seguirà «Questa Cattiva Reputazione». Cita antichi poeti cinesi, Shakespeare, Calderon. E Villon con il suo «Il mondo non è che un inganno». La malattia che lo assale negli ultimi anni è una polinevrite alcolica. Aveva scritto: «Fra le poche cose che so fare con piacere e che ho sicuramente meglio saputo fare, è bere. Ho scritto molto meno della maggior parte degli scrittori, ma ho certamente bevuto di più della maggior parte di coloro che bevono». Dovrebbe limitarsi, rifiuta. Se ne va disprezzando i troppi che lo citano a sproposito: «Troverei altrettanto volgare diventare un’autorità nella contestazione della società che divenirlo in questa stessa società». Post mortem lo Stato francese acquisterà dalla vedova (i suoi rapporti con le donne sono un libro a parte) il suo archivio per la cifra di 2,7 milioni di euro. Il Beaubourg di Parigi gli dedica una mostra, «L’arte della guerra». Lo spettacolo non è ancora finito.