La testimonianza

martedì 8 Aprile, 2025

L’invasione a Gaza, padre Francesco Patton pessimista: «Israele e Hamas non vogliono la pace»

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Il custode in Terra Santa : «Perché si arrivi a una soluzione pacifica serve una volontà politica, che manca. E il solco dell’odio fra israeliani e palestinesi continua ad approfondirsi»

«In occasione della sua stipula avevo descritto la tregua come un prima passo verso una soluzione politica, ma avevo anche parlato del timore che questa non sarebbe arrivata», il custode di Terra Santa, padre Francesco Patton, tornato per un breve periodo a Trento, è pessimista sul conflitto a Gaza: «Le ragioni di Hamas e Israele non sono orientate alla pace, a nessuno dei due “conviene” la fine delle ostilità dal punto di vista politico. Lo dicono gli esperti e lo dicono anche i ministri, lo abbiamo visto con quelli israeliani che si sono dimessi dal governo e sono rientrati a farne parte solo una volta che la guerra è ricominciata. Perché si arrivi a una soluzione pacifica serve una volontà politica, che manca. E intanto, il solco dell’odio fra israeliani e palestinesi continua ad approfondirsi dopo il 7 ottobre 2023. Allo stesso tempo, manca anche un impegno internazionale per risolvere la questione». Una volontà politica che manca anche solo osservando il modo in cui si esprimono i leader delle due fazioni coinvolte nello scontro: «Anche le parole vanno disarmate – osserva il frate – È un problema di cui si erano già accorti diversi politici israeliani nel periodo immediatamente successivo alla pandemia. Perché si arrivi a una pace da entrambe le parti deve esserci un rifiuto del linguaggio deumanizzante, cioè che descrive l’altro come qualcosa al di sotto di un’autentica persona umana. Una strategia comunicativa efficace a livello politico che porta a giustificare azioni violente o peggio a incitarle, come accadeva nella propaganda nazista. Dire che un gruppo di persone sono tutti animali, o tutti terroristi, porta a conseguenze drammatiche di questo tipo».
Padre Patton è pessimista anche sulla condizione dei cristiani in quelle terre: «Per la comunità cristiana che vive in Israele e fra Palestina, Gaza e Cisgiordania sarà una Pasqua di sofferenza – dichiara – Oltre che alla loro sopravvivenza in tempi di guerra molti dovranno anche fare i conti con problemi economici. Sarà infatti un altro anno senza pellegrinaggi dopo gli anni del covid, e questo per i tanti di loro che lavorano nell’accoglienza dei pellegrini come guide, personale negli hotel e commercianti sarà quindi un periodo senza occupazione. Con la differenza sostanziale che il covid era un evento naturale e imponderabile, si poteva solo aspettare il vaccino, mentre nella guerra c’è un fattore umano predominante. Servirebbero soluzioni diplomatiche e politiche che non arrivano, ma soprattutto andrebbero osservati i principi del diritto internazionale e il rispetto delle popolazioni civili, cosa che non sta avvenendo. Tutto questo rende il contesto attuale in Israele scandaloso. Allo stesso tempo sono molto apprezzabili i continui interventi della Chiesa e di Papa Francesco, che continuano a ricordarci come solo attraverso la pace sia possibile costruire il futuro». Per i circa 170mila cristiani che vivono in Israele, quella di lasciare il Paese diventa sempre più quindi la soluzione migliore da seguire : «A Gaza c’è una piccola comunità di due parrocchie riunite in un’unica struttura, perché l’altra è stata gravemente danneggiata dai bombardamenti – spiega il frate facendo il punto sulla situazione nelle varie zone del Paese – Loro stanno semplicemente aspettando e sperando che la guerra finisca, perché non possono fare altro. Anche in Cisgiordania la situazione è drammatica: a Betlemme, dove c’è la parrocchia più grande di tutte, la comunità è in grave pericolo perché la città è ormai accerchiata e, come detto, la mancanza di pellegrini comporta delle perdite economiche importanti. Negli ultimi due anni circa 150 famiglie cristiane hanno abbandonato questa zona migrando altrove, indebolendo così la presenza cristiana in Terra Santa. La stessa sorte sta toccando tante altre comunità piccole e grandi, come quella di Gerusalemme. L’unica zona dove la situazione è leggermente migliore è la Galilea, perché nel nord del Paese i cristiani sono maggiormente integrati e quindi hanno più possibilità di lavoro».