L'INTERVISTA
giovedì 5 Dicembre, 2024
di Claudio Ferlan
Oggi, alle 17.30, nella sede di Via Santa Croce 77 della Fondazione Bruno Kessler sarà presentato il libro di Matteo Al Kalak «Fuoco e fiamme. Storia e geografia dell’inferno» (Einaudi 2024). Con l’autore dialogherà Camilla Tenaglia. Al Kalak è professore ordinario di Storia moderna al Dipartimento di Studi linguistici e culturali e Direttore del Centro interdipartimentale di ricerca sulle Digital Humanities (DHMoRe) dell’Università di Modena e Reggio Emilia
Professor Al Kalak, fin dalle prime pagine del suo libro, lei specifica di aver scritto una storia di un luogo, quello della dannazione eterna, e non del demonio che la provoca. Perché questa precisazione?
«È legata al soggetto su cui poniamo l’attenzione. Se ci concentriamo su chi provoca il male, ovvero sulla personificazione del demonio, entriamo in un discorso che riguarda la sua azione sulla coscienza dell’uomo, il trascinamento verso il male contrapposto al bene. Quando invece pensiamo al luogo cui il peccatore è destinato, l’attenzione si sposta sull’essere umano, perché è proprio per lui che è pensato questo spazio di approdo dopo la morte. In sintesi, ho voluto concentrarmi sul portato antropologico del concetto di inferno, mettere al centro l’uomo anziché il demonio».
Come nasce l’idea di scrivere una storia «infernale»?
«L’idea nasce all’interno di un’architettura concettuale costruita attorno a una domanda: quali sono i caratteri fondamentali del cattolicesimo così come si è strutturato storicamente? Il mio approccio, infatti, è più legato alla storia culturale che alla teologia. Tre elementi sono emersi come fondamentali in questa architettura: il nutrirsi (ne ho scritto nel mio libro «Mangiare Dio. Una storia dell’eucarestia», Einaudi 2021), la paura (punizione e ricompensa) e la consolazione. Il libro di cui stiamo parlando è una sorta di “seconda puntata”, dedicata appunto alla paura».
Una curiosità sul libro precedente: nel mangiare è compreso anche il bere?
«Parlare di nutrirsi, nel cattolicesimo, comprende certo mangiare e bere, ma storicamente il bere è stato spesso messo in secondo piano per via del rapporto problematico con l’accesso al calice. Quindi prevale il mangiare».
Torniamo all’idea di inferno, che è costruita attorno a parole, immagini, suoni, odori e rumori. Quanto sono importanti i sensi per descriverla?
«I sensi sono fondamentali, perché l’inferno è pensato come un luogo che – come già ho detto – ha al centro l’essere umano. Almeno in una fase storica, quella della cosiddetta Controriforma e poi del Barocco (XVII secolo), i sensi diventano strumenti pedagogici privilegiati. Rappresentare l’inferno come un luogo fisico permette di coinvolgere direttamente e concretamente i sensi. Tuttavia, questo porta a cortocircuiti logici, dato che le anime nell’inferno vivono esperienze corporee traslate alla loro dimensione spirituale. Non è un passaggio immediato da comprendere. In particolare, sensi come il tatto e l’odorato richiedono un salto logico importante, ma essenziale per la pedagogia infernale. Quella della dannazione è una paura tangibile, che può essere sperimentata indirettamente già in vita, come nel caso di una scottatura: un’esperienza insopportabile che rende ancora più temibile l’idea di un tormento eterno».
E Dante?
«Lui e la sua Commedia sono gli esclusi da questo libro, potremmo dire. Ho voluto infatti evitare di focalizzarmi su un elemento letterario ingombrante che, pur importante, ha avuto un’influenza limitata, meno forte di quella che possiamo immaginare, nella predicazione e nelle dottrine quotidiane del cristianesimo».
L’inferno è uno solo? Dove si trova?
«L’inferno è uno solo, ma al tempo stesso presenta diverse gradazioni, la metafora geografica può portarci a parlare di regioni. È uno e multiplo, con trattamenti differenziati per chi queste differenti regioni abita. Per esempio, il purgatorio, che in sostanza è parte dell’inferno, offre una possibilità di uscita; lo stesso vale per il limbo, da cui Gesù libera gli antichi giusti. Tradizionalmente, l’inferno è visto come un luogo sotterraneo (l’etimologia del termine lo suggerisce). Tuttavia, con l’avanzare delle conoscenze scientifiche, questa ubicazione diventa sempre meno credibile. Per esempio, negli anni Sessanta del secolo scorso c’è chi ipotizza di collocare l’inferno ai confini della Via Lattea. Precedentemente si è pensato persino che fosse sul sole, ma questa idea contraddiceva la visione geocentrica dell’universo. Dal XVI secolo in poi, l’inferno ha iniziato ad andare in pellegrinaggio, diciamo così, spostandosi nei recessi dell’universo, ai confini delle stelle… la Chiesa lo rappresenta in seguito più come uno stato che come un luogo fisico, una concezione che si afferma soprattutto dal XIX secolo in avanti».
È un luogo solo per i morti o anche i vivi possono visitarlo?
«L’inferno è il luogo definitivo per i morti, ma ci sono eccezioni. Poiché la volontà di Dio è salvare l’umanità, in alcuni casi è concesso a vivi o morti di visitarlo temporaneamente. Santi, mistici e persino Gesù stesso sono descritti come visitatori dell’inferno, con funzioni pedagogiche: raccontare l’inferno per avvertire i viventi e spingerli a evitarlo. Inoltre, ci sono casi in cui anime dannate si manifestano ai vivi, mostrando i tormenti subiti come monito. Si tratta di una possibilità straordinaria concessa da Dio per esortare gli uomini a non condannarsi».
Chiudiamo con gli inferni di altre religioni.
«Rispondo facendo riferimento a un mondo nel quale il contesto maggioritario è cristiano, l’Europa di Antico Regime. In questo mondo le concezioni dell’inferno delle altre religioni, come l’ebraismo, sono molto simili a quella cattolica. Le esigenze sociali che portano alla costruzione di un certo immaginario infernale sono trasversali. L’inferno cristiano ha una forte componente morale: spiega cosa fare o non fare e associa punizioni specifiche ai peccati. Anche l’ebraismo presenta concetti analoghi. La necessità di normare comportamenti, evitare lassismo e affermare l’immortalità dell’anima è una preoccupazione condivisa tra cristiani ed ebrei.