Il libro
mercoledì 10 Aprile, 2024
di Paolo Morando
Dai saggi divulgativi sul fascismo, ormai tradotti in tutto il mondo, alla narrativa per ragazzi. Martedì prossimo 16 aprile, per la collana «Up» di Feltrinelli, esce il primo romanzo dello storico trentino Francesco Filippi: si intitola «Bye bye Benny» e quel Benny indica ovviamente Benito, il cui faccione in bassorilievo campeggia in copertina. Il sottotitolo suggerisce che il racconto è ambientato nel tempo presente: «Una storia di rap e libertà». E quindi la curiosità cresce.
Filippi, perché un romanzo?
«È un esperimento che ha comunque a che fare con la mia attività principale: la divulgazione storica e l’analisi del rapporto tra passato e presente. In particolare, il racconto si incentra su un’Italia di questi giorni, aprile 2024, con elementi fattuali. Con un piccolo particolare: in questa Italia abbiamo le leggi del fascismo».
Come in «Fatherland» di Richard Harris, il romanzo in cui si racconta la vittoria del nazismo e le sue conseguenze.
«Sì, è un romanzo distopico. E in questa Italia immaginata abbiamo quindi le leggi sul controllo della stampa, della libertà di movimento e dei diritti civili ancora oggi in funzione. Nello specifico, il romanzo racconta la storia di tre ragazzi, Italo, Giacomo e Sofia, alle prese con queste leggi in un regime totalitario».
Come le è venuta l’idea?
«Feltrinelli mi ha proposto di provare a raccontare attraverso una storia il fascismo di ottant’anni fa. Ma invece di prendere una storia di allora per raccontarla ai ragazzi di oggi, ho preso una storia di oggi e l’ho messa a confronto con il mondo di allora. E quindi con un regime che si impegna anima e corpo, da mattina a sera, per mantenere il controllo sulla popolazione, in questo caso sui giovani. Attraverso un romanzo di fantasia, cerco di mostrare non un totalitarismo in generale, bensì quello made in Italy: cioè quello mussoliniano».
La domanda è inevitabile. Quante volte, mentre scriveva, ha pensato: questa cosa che sto immaginando con le leggi di allora, si sta verificando anche oggi.
«Drammaticamente, il panorama generale mi ha offerto molti spunti: non solo in Italia, non solo in Occidente. Ad esempio per quanto riguarda le politiche dell’informazione. Italo, Giacomo e Sofia hanno ovviamente dei telefoni cellulari, ma non sono cellulari normali: internet non è libero, c’è una versione autarchica in cui solo utenti italiani possono entrare. E purtroppo non mi sono inventato nulla: l’esempio è preso dalle grandi dittature come quella cinese, dove paradossalmente la tecnologia è strumento oppressione e non di libertà».
Deve essersi anche divertito scrivendolo. Le reazioni di chi lo ha letto in anteprima?
«Sì, mi sono divertito. E anche i primi lettori, che ringrazio. È un romanzo che vuole essere fresco, non solo per lettori giovani: alcuni spunti sono talmente presenti nell’attualità da poter interessare un pubblico al di là delle fasce».
Nel sottotitolo spunta anche il rap.
«È uno dei tanti generi musicali che popolano l’immaginario dei giovani, con contenuti che spesso hanno un grado di attenzione sociale e di complessità molto stringente sull’attualità. E quindi, nel fascismo dell’anno 102 dell’era fascista, sull’italianità. Proprio questa passione di Italo, che ha sedici anni, lo condurrà a fare delle scelte».
In quest’anno 102 dell’era fascista, c’è una opposizione?
«L’opposizione non arriva subito, nel senso che vediamo l’Italia di questo tempo con gli occhi di un liceale che viene da quasi cinque generazioni di persone immerse nel brodo di cultura fascista. In più Italo, lo si capisce dal nome, è figlio di funzionari del partito: quindi per lui l’antifascismo è una brutta parola. Nel corso del libro capirà che non solo antifascismo non è una brutta parola, ma che è invece una parola di opportunità, di confronto. L’opposizione esiste, certo: nessun totalitarismo è mai stato perfetto. Meno di altri il totalitarismo italiano».
In fondo restiamo sempre italiani, no?
«A livello organizzativo, per fortuna, si stenta un po’».
Senza spoiler: c’è comunque un lieto fine?
«In realtà il finale è aperto. Ma non dico altro».
Torniamo alle attinenze con l’oggi e al Filippi storico prima che romanziere. Veniamo da un anno e mezzo di governo di destra: peggio, meglio, o esattamente come si immaginava? Soprattutto per quanto riguarda la riscrittura della storia.
«Credo che una componente dell’estrema destra italiana che oggi è al governo non solo non ha preso le distanze dal passato fascista di questo Paese, ma è sempre convinta che una parte di questo passato vada rivalutata e reinserita all’interno del racconto nazionale. C’è una precisa volontà di parificare l’esperienza del fascismo e dell’antifascismo all’interno di una visione storica comune: una parificazione che è molto lontana da un concetto di pacificazione. Mi sembra che si voglia fare passare l’idea che, essendo trascorsi ottant’anni, anche i valori dell’una e dell’altra parte possono sbiadire e tornare tutti nella stessa melassa. È un passaggio che ci obbliga a riflettere su qualcosa che forse avevamo dato per scontato per troppo tempo: ovvero, quali sono i valori della nostra civiltà».
I suoi saggi storici sono stati tradotti in tutto il mondo, lei li ha presentati anche all’estero: come viene vista là oggi la contemporaneità italiana?
«Da un secolo e mezzo a questa parte l’Italia viene sempre vista come un grande museo in cui si racconta il passato: i Romani, il Rinascimento… Ma in realtà è soprattutto un grande laboratorio del futuro. Qui sono nati il totalitarismo di destra, il fascismo, e la sua opposizione, l’antifascismo. Passati gli anni, questo è il luogo in cui si è inventata l’esperienza dei tycoon e dell’intreccio spesso malato tra informazione e politica, con Berlusconi. Oggi molti commentatori, almeno quelli che ho frequentato io, guardano con interesse quasi scientifico a questo esperimento di conservatorismo transnazionale che l’Italia rappresenta ora attraverso Giorgia Meloni. L’Italia sta ancora una volta precorrendo dei termini di futuro: in una società come quella occidentale che si sente in pericolo e sotto assedio per il cambiamento climatico, l’inverno demografico, le migrazioni e la riconversione ecologica, molti guardano a quello italiano come a un possibile laboratorio di risposta della destra conservatrice, molto più del modello di Marine Le Pen di qualche anno fa. Quello meloniano e italiano risulta più malleabile ed esportabile: chiaro riferimento alle proprie radici culturali, quali esse siano, e contemporaneamente costruzione di comunanza di intenti su vari temi, a geometria variabile tra chi ci sta».
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