La protagonista
sabato 8 Febbraio, 2025
Loredana Cont, più di 50 spettacoli e 341 personaggi: «Sono io la regina dei sold-out»
di Anna Maria Eccli
L'attrice e autrice si racconta: «Io figlia di emigranti, i miei genitori hanno vissuto il disagio e la xenofobia»

È la donna più impertinente del Trentino, le sue battute sagaci sgorgano con naturalezza, pregne di quella saggezza aspra e graffiante che la parlata dialettale fa fiorire generosamente ad ogni latitudine: Loredana Cont nasce a Basilea il 27 gennaio 1956, passa una vita da funzionario del Comune di Rovereto, ma nel frattempo corrobora e affina un talento teatrale e drammaturgico fenomenale. Ha scritto qualcosa come 13 monologhi che dal 2000 porta in scena personalmente e 42 commedie (16 sono state pubblicate nei due volumi «Il teatro di Loredana Cont»), tutte divertenti e alcune su temi importanti (Alzheimer, violenza sulle donne, parità di genere…). Scrive prendendo spunto dalla quotidianità: ambiguità, equivoci, malintesi sono materiali che lei trasforma in storie spassose che vengono recitate in tutt’Italia, tradotte anche in altri dialetti, in tedesco, in sloveno e in portoghese. Prima della pandemia le sue commedie erano rappresentate anche 300/320 volte all’anno, in vari teatri italiani e dal 1999 è l’autore maggiormente rappresentato in Trentino, con picchi, talvolta, di 135-165 rappresentazioni annue. La sua prima commedia, «A no saverla giusta» l’anno prossimo compirà 50 anni e «L’eredità dela pora Sunta», altro storico successo, ne ha appena compiuti 40. Il successo più clamoroso va a «L’usel del marescial», diventata oggetto di tesi di laurea, all’Università di Trento, per una studentessa brasiliana (Claudia Nardelli).
Bravissima nello stanare le contraddizioni del quotidiano, Cont smaschera pochezze e fantasie, ma brava davvero lo era anche a scuola. Non volendo passare per la prima della classe stava, però, tra i bocciati a combinare marachelle, senza essere creduta quando si autodenunciava quale autrice dei misfatti, come quando tirò palline di carta “negli stivali larghi d’una professoressa dalle gambe secche” che le disse “Cont, non devi immolarti per gli altri”.
Prossimamente la rivedremo allo Zandonai (il 5 aprile), per la Lilt, mentre l’8 marzo sarà al Teatro S.Massimo di Verona con il monologo “Tacco 12 e grombiàl”.
Loredana lei è garanzia di divertimento, passa la vita a tirare su il morale alla gente.
«La mia natura è questa, mi piace scrivere, recitare, divertire con battute, sdrammatizzando i fatti. Ho bisogno di vedere attorno a me gente che sorride. Gli applausi mi gratificano ma ho bisogno della risata, di sentire che sono arrivata a portare allegria. Non mi piace chi si lamenta; nella vita bisogna vedere il bicchiere mezzo pieno. Questa sono io, ma ciò non significa che la vita reale sia più generosa con me che con gli altri. Esattamente come per tutti è piena di momenti belli ma anche di momenti molto complicati come quello che sto vivendo in famiglia per questioni di salute. Ma cerco di affrontarli pensando che domani andrà meglio».
Da cosa nasce il suo grande amore per il dialetto?
«La mia generazione parlava in dialetto, ogni frase è evocativa, è una macchina del tempo che regala emozioni. Il dialetto è una fotografia potente. Come sostituire termini come “engranizàda”, “engremenì”, “engiazà”? Sono parole nate per dare voce a un luogo».
Quando ha debuttato a teatro come autrice di testi?
«Nel 1985, con “A no saverla giusta”. Quelli erano gli anni delle prime televisioni private e Telequercia la registrò e la trasmise in continuazione. Era il pubblico a richiederlo, tanto era esilarante. L’anno prossimo saranno passati 50 anni da quando l’ho scritta ed è ancora in giro per l’Italia».
Autrice e attrice… quale ruolo venne per primo?
«Ho iniziato prima a scrivere e poi a recitare in varie filodrammatiche. Fu Paolo Manfrini a dirmi che avrei dovuto recitare da sola. Gli avevo fatto leggere il copione di “Don(n)e” e lui pronosticò un lungo successo. Infatti, lo scorso dicembre a Trento, in un Teatro Sociale pieno, ho festeggiato i 25 anni di quello spettacolo».
Come mai lei nasce in Svizzera?
«Sono figlia di emigranti che mi hanno riportata in Italia quando avevo 2 anni. Questo mi porta, oggi, ad avere un occhio di riguardo per tutte le persone che arrivano qui. I miei genitori hanno vissuto il disagio e la xenofobia degli svizzeri, cerchiamo di evitare di far fare la stessa esperienza ad altri».
L’origine della sua famiglia?
«Papà Valeriano era di Pedersano; molto ironico e divertente, io assomiglio a lui e alla mia nonna paterna. La mamma, Stella Ballerin, che oggi ha quasi 95 anni e legge ancora due libri a settimana, è della Valsugana. È la persona più equilibrata che io abbia conosciuto nella mia vita e non dice mai banalità.
Scrivere 42 commedie significa immaginare una grande quantità di personaggi, ognuno con proprio carattere…
Certamente, anzi li ho contati: sono 341 i miei personaggi e ognuno è alle prese con vicende diverse, ognuno possiede un proprio modo di pensare, di parlare, una propria personalità. Mi emoziona sempre il fatto che nascano dalla mia mente come pure astrazioni, fatti di aria, ma dal momento che escono dalla penna diventano persone in carne ed ossa».
Regina del sold-out: se ai suoi spettacoli non ci si prenota si rischia di rimanere fuori. Come si spiega un successo tanto continuativo?
«Bisognerebbe chiederlo alla gente, certamente credo che si abbia bisogno di divertirsi e i miei testi sono una garanzia di risate. Ovviamente il livello recitativo della filodrammatica che li rappresenta ha grande importanza. Per quanto riguarda i monologhi credo che ci sia anche ammirazione da parte del pubblico per una donna che si presenta da sola sul palco e riesce a intrattenere per due ore senza annoiare».
Sì, donne alle prese con la comicità iniziano ad essere molte, e brave, in tante regioni, ma nel Trentino lei è unica, come mai?
«Non ne conosco il motivo, di sicuro recitare da soli significa mettersi sul palco a farsi giudicare in prima persona. Sarò la più coraggiosa? Non lo so, resta il fatto che il pubblico mi segue e mi vuole bene da tanti anni e per questo lo ringrazio. Ma ringrazio anche Giorgio, mio marito, che mi ha sempre supportata, facendo da tecnico luci e audio, autista, critico con osservazioni sempre azzeccate. Se sono arrivata è in gran parte grazie a lui. Insieme ci siamo anche divertiti tanto».
Da funzionario comunale, con un collega, ha battezzato “Cecenia” il comparto alla cartiera in cui trasferirono gli uffici tecnici, per evidenziarne isolamento e desolazione, ma era famosa anche per scherzi proverbiali.
«Bisogna dire che erano anni diversi, e l’ambiente di lavoro era molto più rilassato di oggi. Io ero in commissione edilizia, ogni tanto mi divertivo con il dirigente, l’architetto Fabio Tecilla, e il collega Beppino Graziola, che poi sarebbe diventato addirittura assessore ai Lavori Pubblici, a mettere all’ordine del giorno finte pratiche. Una volta mettemmo in piedi un progetto, diligentemente corredato da immagini, per inserire gli occhi alle statue di Fabio Filzi e Damiano Chiesa, detti “i orbi” di Piazza del Podestà. Si trattava di collocare due palle luminose che di notte ruotassero. Scoppiò una polemica feroce, si ipotizzò il vilipendio, si proseguì la discussione al bar Due Colonne, mentre noi ce la ridevano. Era goliardia pura».