L'intervista
martedì 2 Aprile, 2024
di Donatello Baldo
«Se tutto va come deve andare, tra poco sarò assunto come dipendente, con un contratto vero». Lorenzo Minacapelli ha 28 anni, è autistico, e per lui l’emancipazione attraverso il lavoro è questione fondamentale: «Un passo importante, poi ci sarà anche quello di andare ad abitare da solo o, meglio, con la mia fidanzata. Ma questa è un’altra storia».
Passo dopo passo, no? Iniziamo da lavoro, si tratta di una notizia fresca quella dell’assunzione?
«Sì, anche se mi sto preparando da tempo. Andrò a lavorare in una copisteria, ma non so bene con che grado di responsabilità. So che sarò a contatto con i clienti ma che dovrò occuparmi anche della grafica e dell’attività di laboratori. Ma una cosa è certa, sarò trattato come un dipendente, con l’orario, la busta paga e tutto il resto».
Una bella soddisfazione.
«Per un ragazzo autistico come me è la vittoria più grande».
Significa che non è affatto facile.
«No. E ci ho provato tanto. Ho mandato una valanga di curriculum, anche per lavori in cui non servivano chissà quali competenze. Magazzini, negozi, supermercati. Tanti rifiuti, ma soprattutto evitavano proprio di rispondere alla mia richiesta di lavoro. Partivo sempre con grandi speranze, poi ci rimanevo male, mi demoralizzavo, perché in fondo sapevo che il no dipendeva dal fatto che sono autistico, perché tutte le disabilità vengono troppo spesso considerate solo come qualcosa di negativo o comunque incompatibile con il mondo del lavoro. E non è così, per niente».
E com’è arrivato dunque a questo impiego?
«Attraverso un percorso di formazione. Formazione che in generale ho intrapreso fin dalla fine delle superiori. Prima con Be@Work di inserimento lavoro, all’interno dell’allora cooperativa Il Ponte di Rovereto, oggi Impronte. Poi è stato avviato un progetto più specifico in vista dell’apertura della copisteria. Ah, ho lavorato pure alla locanda del Barba, una bellissima esperienza».
Ma so che lei ha anche una grande passione, che però non è riuscito a trasformare in lavoro. Ci racconti di cosa si tratta.
«Il giornalismo sportivo, lo speaker in particolare. Questo resta un sogno, che continuo a coltivare. Intanto anche per questa passione mi sto allenando: tutti i weekend sono al palazzetto, partecipo a eventi. A volte sono io al microfono, a volte conduco io anche l’evento. È già successo, soprattutto con il Volley Volano, che seguo ormai da tempo. Chissà che un giorno non possa lavorare come giornalista sportivo da libero professionista».
Chissà, ma intanto avrà a breve un contratto vero e proprio, che non è poca cosa. Un passo alla volta, no?
«Sì, anche perché già devo gestire l’ansia di questo nuovo lavoro: i clienti che hanno fretta, le richieste che si accumulano…».
Abbiamo parlato del mondo del lavoro, ma quand’era a scuola? Lì ha incontrato difficoltà? Aveva un gruppo di amici che sapessero accogliere la sua neurodivergenza?
«A dire la verità un gruppo di amici vero e proprio non ce l’avevo. Qualche volta mi invitavano alle feste di compleanno, ma solo perché era invitata tutta la classe. Posso dire? Quegli anni ho cercato di cancellarli dalla mia mente».
Addirittura?
«Beh, ho subito il bullismo. Non è stato un periodo né bello né semplice per me. I miei compagni di classe si divertivano quando mi arrabbiavo, e quando mi arrabbiavo lo facevo sul serio. Giocavano a farmi arrivare fino al limite, mi stuzzicavano finché non esplodevo, fino a quando non perdevo la pazienza e reagivo senza più controllarmi».
Gli insegnanti non la aiutavano?
«Maestre, professori, vedevano la mia reazione e punivano quella. Dicevano che era tutta colpa mia, che così non ci si doveva comportare. “Sei tu che sbagli”, mi spiegavano. Non avevo appoggio da nessuno, nemmeno da quelli che avrebbero dovuto proteggermi».
La sua famiglia, invece?
«Mi ha sempre appoggiato. E fin dalle elementari sono stato seguito dall’Odflab diretto dalla professoressa Paola Venuti. Sono stato sostenuto in un percorso lungo, che ora sta dando i sui frutti. E tuttora sono seguito da uno psicologo».
Qual è la maggiore difficoltà che riscontra nell’approcciarsi a un mondo di «neurotipici»?
«Ora meno, ma una volta facevo tanta fatica a capire il linguaggio non verbale, soprattutto le espressioni del viso. Risultavo per questo inopportuno, non capivo da uno sguardo quando fosse meglio tacere, intervenire, chiudere una conversazione. Ora sono migliorato molto».
Rimane qualche difficoltà?
«Ora un po’ ci rido anche su. Se uno fa una faccia che mi sembra arrabbiata, e io la interpreto male, quando l’equivoco si risolve ci si scherza sopra. Sto pure imparando a capire l’ironia, i doppi sensi, le battute. Non è facile per me, ma ci sto lavorando passo dopo passo».
L’obiettivo del lavoro sta per essere centrato. Altri obiettivi?
«Abito ancora a casa con i miei. Mi piacerebbe andare a vivere da solo, anzi: con la mia fidanzata. Stiamo assieme da due anni, a volte parliamo di progetti per il futuro. Ma anche in questo caso, passo dopo passo».
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