la storia
martedì 23 Aprile, 2024
di Anna Maria Eccli
Flat cap in testa, lunghe ciocche grige che scappano ai lati, ma a fare di Luigi Frisinghelli un giovane di classe è qualcos’altro, quel modo veloce di pensare, per esempio, e la bonomia della persona intelligente che traspare: 87 anni portati come pochi, una vita di passione per i motori. Pioniere di specialità sportive in sella alla Vespa, ha fatto fioccare titoli europei di Trial e Gimkana e da 40 anni ricopre il ruolo di conservatore e presidente del Registro Storico della celebre e amata creatura firmata Piaggio (prodotta in più di 50 modelli, fino alle attuali versioni elettriche, la Vespa è stata acquistata da oltre 19 milioni di compratori sparsi in tutto il mondo). Lo incontriamo nella chiesetta di Sant’Osvaldo proprio in occasione della mostra “La Vespa Teresa. La due ruote italiane nella storia del giocattolo” organizzata a quasi 80 anni dalla nascita dell’iconico scooter, espressione del miglior design industriale italiano. In mostra la storica 946, o la 150 GS, giganti per eccellenza del fuoriporta cittadino, con accanto riproduzioni-giocattolo. Prodotta su progetto dell’ingegner Corradino D’Ascanio nel 1946, nell’immaginario collettivo la Vespa è sempre stata considerata quasi un “marchio autonomo” e ha rappresentato sin da subito una rivoluzione nel modo di concepire la vita, all’insegna di libertà, autonomia e neologismi rivoluzionari che del nome facevano un verbo come “Vespizzatevi”. Seguirono slogan celebri: “Con Vespa si può”, “Chi Vespa mangia le mele”, “Giovane chi Vespa”. Frisinghelli non ha minore spirito: centellinare il tempo da passare al bar da pensionato, per stare con i giovani, “vespizzati” già a 16 anni, gli fa bene.
Cosa significa essere da 40 anni presidente del Registro Storico?
«Sicuramente stare in contatto con mezzo mondo; direi che mi conoscono più in giro che a Rovereto. Vivo in mezzo ai motori da quando ero ragazzo: frequentavo le commerciali, ma di sabato e di domenica ero al bivio di Lizzanella, nell’officina di papà Silvio, classe 1910. Poi, la formazione alla Piaggio, a Pontedera, e da meccanico sono diventato commerciante. Nel nostro negozio abbiamo avuto di tutto, però, nel ’72 siamo stati i primi a vendere le Suzuki, fino a 10 anni fa. Abbiamo smesso quando la casa giapponese iniziò a produrre scooter, diventando concorrente di Piaggio».
Lei ha anche un passato sportivo.
«Ho iniziato a fare gare di regolarità e gimkana, di granfondo come la Trento-Trieste e la Trieste-Firenze negli anni ’50, diventando direttore sportivo del Vespa Club di Trento. Ma dopo il militare ed essermi sposato, nel 64, mi sono trovato davanti a un fatto nuovo: la Piaggio non sovvenzionava più il Vespa Club. Erano cambiati i tempi e la pubblicità la si faceva in altro modo, con affissioni, cartellonistica. Decisi così di curare le moto storiche; avevo restaurato una Gilera del ’36, una del ’28, una Vespa U: ne misi assieme 7, 8 e cominciai a fare manifestazioni e gare di regolarità con queste, accorgendomi che a Legnago esisteva un registro storico. Negli Anni ’80 il Vespa Club stava rinascendo in altra forma, a Roma, Legnago, Verona, piccoli club tornavano ad ardere come fiammelle. La Fiv, Federazione internazionale di Vespa, organizzava a Verona il primo raduno europeo e lì trovai vecchi amici. Nell’86, al Congresso di Venezia, entrai nel Consiglio nazionale Italia».
Si dice che l’iconica Vespa non abbia mai lasciato a piedi nessuno.
«Con la sua scocca portante in acciaio, e non in plastica come per gli altri scooter, è unica. Non si rompe mai; il segreto sta nella grande semplicità del motore. Senza catene di trasmissione, con un’asse che va dagli ingranaggi alla ruota posteriore; se si fora la ruota di scorta va bene sia davanti che dietro e…è ancora in produzione».
Dice che l’Italia ha perso un patrimonio per tante Vespa “espatriate”, come andò?
«Quando l’Italia, unico Paese al mondo a farlo, sostituì la tassa di circolazione con quella di proprietà, molte persone non pagarono il bollo e ciò comportò la cancellazione delle Vespe dal Pubblico Registro Automobilistico; presero la via dell’estero dove l’immatricolazione era facile. Ancora oggi, nonostante l’impegno dell’Asi (Automotoclub storico italiano) rimetterle in strada è faticoso e costoso».
È vero che la “Vespa” avrebbe potuto chiamarsi “Paperino”?
«Assolutamente no, venne chiamato così un prototipo prodotto durante la guerra, un piccolo scooter che a Piaggio non era proprio piaciuto».
I giovani d’oggi cercano ancora la Vespa?
«Certo, il mercato non ha età. L’epoca dei cinquantini, il boom dei motorini per quattordicenni, è finita; oggi i ragazzini hanno altri interessi: viaggi, elettronica. Quando si avvicinano alla moto, sui 16 anni, fanno la patente A1 che servirà come teoria anche per la guida dell’automobile».
Frisinghelli… da dove proviene la sua famiglia?
«Il ceppo è austriaco; nell’800 i Frisinghelli acquistarono uno dei tanti filatoi che sorgevano attorno alla Roggia Paiari. All’epoca di nonno Luigi, di cui porto il nome, e di suo fratello Francesco, la lavorazione della seta in città era già finita e il filatoio divenne un lanificio, come recita la scritta sulla casa, dove oggi ho l’officina. Durante la prima guerra mondiale venne abbattuto il portico per collocare un cannone Skoda con cui sparare sul Pasubio, assieme al gemello posizionato nella fossa del Castello. Finita la guerra il lanificio divenne un berrettificio che esportava persino in America; anche quella lavorazione avveniva grazie alla roggia che faceva girare i telai. Di fronte al berrettificio, poi, c’era anche un mulino in cui portavo il grano a macinare quando avevo 9 anni».
Come vede il mondo attuale?
«Stiamo creando cervelli piatti, ma la colpa è anche dei genitori che mettono il telefonino in mano a bambini di 4 anni. Credo sia finita la stagione dei geni italiani, noi italiani abbiamo un cervello diverso: ci bastano poche parole per esprimere l’intero, siamo veloci nel capire, abbiamo un’intelligenza diversa, fantasia e gusto fanno parte del Dna. Ma ho il sospetto che tra multinazionali e intelligenza artificiale si voglia appiattire il mondo. Mi piace vedere quanto siano svegli i bambini dell’asilo, ma penso che l’elettronica li rovinerà».
Ha definito le Vespa “sculture meccaniche”, opere d’arte degne d’un museo.
«Sono 20 anni che cerco di crearlo, con Sergio Berlanda al fianco, purtroppo deceduto. Cercavamo una location degna, senza risultato. Consideri che a Rovereto abbiamo 500 moto d’epoca, sono scooter introvabili, esemplari prodotti in minime quantità, forniti di schede tecniche precise. Ora sono anche stanco di insistere».
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