l'intervista
martedì 2 Gennaio, 2024
di Valentino Liberto
La scrittrice Maddalena Fingerle, classe 1993, è nata a Bolzano e vive nell’Allgäu, in Baviera. A Monaco ha studiato germanistica e italianistica ed è ricercatrice universitaria. Il suo pluripremiato romanzo d’esordio «Lingua madre» (Italo Svevo) ha vinto, tra gli altri, il Premio Italo Calvino e il Premio Flaiano under 35. Nel 2024 uscirà per Mondadori il suo nuovo romanzo.
Lei è quella che si definisce «un’expat», bolzanina di nascita e tedesca d’adozione, ricercatrice a Monaco…
«E l’anno prossimo, nel semestre estivo, terrò un corso di scrittura. In italiano. In Germania».
Visto da una grande città europea, che effetto fa l’eterno dibattito sulla difficoltà dell’apprendimento della seconda lingua in Sudtirolo?
«Mi pare sempre un po’ assurda la situazione in Alto Adige: in teoria ci sarebbero tutti gli strumenti per imparare le lingue, però non funzionano. Io stessa provai diversi tandem, ma dopo dieci minuti si finiva a parlare in italiano. Mi sembra una peculiarità di lì, se penso alla situazione speculare delle persone di lingua tedesca che qui studiano l’italiano».
Perché?
«È un contesto più neutro da questo punto di vista. Non c’è un obbligo».
È un invito a spostarsi, «emigrare» in un luogo più neutrale?
«Volevo studiare germanistica, mi piaceva la letteratura tedesca, però non conoscevo la lingua in maniera tale da riuscire a gestirmi lo studio. Sono andata d’estate ad Augusta a studiare tedesco in una famiglia e poi direttamente a Monaco a iscrivermi all’università. L’idea iniziale era di tornare dopo tre anni. Ma ora, dovessi tornare in Italia, non tornerei a Bolzano».
Come mai?
«Non dà quel senso di casa che mi dà per esempio la Puglia o Roma. Non ha un carattere forte, degli elementi distintivi in cui rispecchiarsi — che siano linguistici o persino culinari. Non vado a casa e c’è la cacio e pepe. Per ragioni storiche la parte di lingua tedesca ha un carattere molto più definito, quella italiana è in realtà — in questo caso sì — più “neutrale”».
Nel 2024 in Sudtirolo si svolge il censimento dei gruppi linguistici.
«Non sono dichiarata linguisticamente, per un disagio fisico e un imbarazzo nel mettere questa crocetta. La trovo una cosa ridicola, penso non mi serva ma so che c’è la possibilità di tornare indietro. Non è stata una decisione eroica, “politica”: potevo permettermi di non prenderla».
Solo una scelta personale, non ci sono ragioni politiche?
«Faccio parte di quella generazione che vive la politica in maniera molto diversa rispetto alla generazione precedente. Non sono mai andata in piazza, non ho mai fatto politica e non sono mai stata militante. Nel romanzo “Lingua madre” il tema ha un peso diverso, c’è un modo di “fare politica” un po’ inconsapevole. Il protagonista Paolo decide di non fare la dichiarazione linguistica per una questione di solidarietà rispetto a un amico. È una politica vissuta in maniera più individuale e meno “sessantottina”».
L’Alto Adige viene ancora raccontato male — o si racconta male?
«Mi sembra ci siano dei racconti bizzarri. Nei libri in cui si cita l’Alto Adige accadono cose strane. Parlano in tedesco standard, quando nessuno lo fa. Oppure in italiano dicono “Bozen”, come se in tedesco arrivasse meglio e fosse più rispettoso. Mi sembra un’attenzione costruita. C’è poi una radicata retorica politica che ci definisce “bilingui”, come se lo fossimo tutti. Mentre da Monaco l’Italia inizia solo dopo l’Alto Adige».
Che auspicio ha per la sua città d’origine?
«Secondo me le librerie hanno un peso. Ho la sensazione che Bolzano sia una città più viva da quando c’è la Nuova libreria Cappelli di Marcello Landi. Ci sono più persone che s’incontrano — non sono abituata a vederlo a Bolzano. Ecco, mi auguro che rimanga la libreria».
Qual è la sua peculiarità?
«Una persona “da giù” che scommette, ci crede e dà la possibilità di fare qualcosa. Istintivamente viene da scommetterci insieme. Un luogo dove trovare quell’elemento più identificativo, più “dialettale”, è qualcosa che a Bolzano prima non c’era».
Da italiana all’estero, come vede il suo Paese?
«Penso a Gaber, all’incazzarsi se l’Italia diventa solo “pizza e mandolino”, mafia, sole, disorganizzazione. Mi viene una rabbia tale, per cui per orgoglio chiudo un occhio sui problemi italiani e idealizzo il resto. Ho nostalgia del cibo e soprattutto della lingua. Mi manca non essere circondata da persone che parlano la mia lingua e me ne accorgo adesso per la prima volta. Come punto di contatto, come ponte, trovo la radio. Ascoltare Radio 3 per me è trovare l’Italia che mi fa sentire a casa. Un’Italia costruita, non reale, acustica».
Nel 2024 si terranno le elezioni europee. Cos’è l’Europa? Un mito, una chimera, una sensazione?
«L’ho sentita negli anni a Monaco, fortissima. All’università vivevo in una bolla. Nel momento in cui mi sono spostata nella campagna bavarese, mi sono sentita per la prima volta straniera. Qui non direi mai che sono europea, sento il divario tra la “mia” cultura e la “loro”, innanzitutto a livello linguistico».
C’è una polarizzazione tra le città più cosmopolite e la campagna più conservatrice?
«Credevo fosse retorica. Ma qui è innegabile, senza neanche un giudizio di valore. Sono due mondi diversi. L’Europa è molto lontana».
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