Il caso
domenica 26 Novembre, 2023
di Ambra Visentin
Avolte serve la determinazione dei propri figli per denunciare una vita matrimoniale fatta di prevaricazioni economiche e relazionali, di violenze e di paura. È il caso di Claudia — tutti i nomi sono di fantasia — residente in provincia di Trento. Il marito, Luigi, è stato condannato nelle scorse settimane a 5 anni di reclusione dalla giudice monocratica di Trento Greta Mancini per averla maltrattata con ingiurie frequenti (la coppia è sposata dal 1990 e ha avuto tre figli: due femmine e un maschio) e sporadici episodi di violenza fisica, sottomettendola al suo volere e impedendole di frequentare la madre anziana e, in seguito, anche una delle figlie, per quasi quattro anni. «Mia figlia Chiara mi diceva: “dai mamma vai a fare la denuncia, trova il coraggio”. Voleva darmi una via di salvezza e io non voglio abbandonarla. Temeva che mio marito potesse farmi ancora del male e voleva proteggermi», ha raccontato alle forze dell’ordine la donna nel 2018, che ha poi tentato di ritirare la querela e, durante il processo, a più riprese ha tentato di sminuire quanto subito dal marito.
Le prevaricazioni relazionali
Luigi, da sempre contrario alla relazione della figlia con il compagno, le ha impedito per anni di frequentarla. Claudia ha però mantenuto di nascosto i contatti telefonici.
Le limitazioni imposte dal marito riguardavano anche le visite alla madre, residente in un’altra valle del Trentino.
Per Claudia, priva di patente, raggiungere l’anziana era molto complicato dovendosi servire del trasporto pubblico. Inoltre, il marito si arrabbiava e l’aggrediva verbalmente alla sola richiesta di andare a trovare la madre.
La violenza fisica
È stata proprio la figlia, preoccupata per la situazione che la madre subiva fin dalla nascita della sorella maggiore, a denunciare nel 2018 che la madre era stata percossa, «anche con un bastone, per futili motivi». Il primo episodio di violenza fisica risale infatti al 1992. Claudia, che si era occupata della neonata con la febbre, non aveva preparato la cena al marito, il quale iniziò a darle forti pugni sulla schiena procurandole dei lividi. Durante l’aggressione la donna aveva urlato e chiesto aiuto, ma nessuno l’avrebbe sentita.
In episodi “minori” l’uomo le ha dato schiaffi e calci sui glutei nel corso di quelle che erano «discussioni per futili motivi». E con altrettanta leggerezza il marito l’ha colpita con un bastone di legno sul braccio (l’episodio risale al 2017), perché un vitello aveva rovesciato un secchio di latte. E ancora nel 2018, il marito l’ha sbattuta contro il muro e l’ha colpita con un pugno all’occhio destro. Lei aveva detto al marito che non stava «facendo niente di male», quando l’uomo le aveva intimato di spegnere la televisione che la donna stava guardando. Durante quella lite l’altra figlia (che ancora viveva con i genitori nell’abitazione di famiglia), è intervenuta, finendo per essere respinta con forza. In tutte queste occasioni Claudia non si è tuttavia recata né in caserma né al pronto soccorso, temendo per il proprio futuro: «Non so cosa possa succedermi. Il mio matrimonio è senza amore e senza felicità, vivo con mio marito solo perché non ho un lavoro e temo di non poter badare ai miei figli».
Le testimonianze
Il figlio, che lavora in azienda con il padre, ha testimoniato contro quanto dichiarato dalla madre e dalla sorella. «Secondo me non ci arriva tanto con la testa», ha detto in riferimento alla sorella. Nel portare alla condanna del padre è stata la testimonianza chiave di un’assistente sociale (i Servizi sociali erano già intervenuti in passato in ragione di fragilità riscontrate nel nucleo familiare), che nei mesi antecedenti alle denunce aveva accolto le richieste di supporto da parte di entrambe le donne. La sua deposizione ha fornito un solido riscontro alle accuse successivamente mosse dalla donna nella propria querela nei confronti del marito che, durante la fase istruttoria era stato anche allontanato da casa.