l'intervista
lunedì 14 Ottobre, 2024
di Gianfranco Piccoli
«Volevo mettere un ancoraggio, un filo che li riconduca ad un baricentro. Oggi i bambini vivono nel cestello di una lavatrice che fa la centrifuga. Si può trovare un nuovo equilibrio. Senza per forza, un giorno, lasciare tutto e andare a lavorare in una malga». Il senso, poi, è tutto qui. E non ci sarebbe bisogno di chissà quali altri discorsi. Ma la curiosità di capire cosa spinga un’ingegnera gestionale, una manager, a scrivere un libro illustrato per bambini, è tanta. Perché è più facile immaginarsi Elena Andreolli, 44 anni, consigliera delegata delle Terme di Comano, a navigare con disinvoltura sui numeri di un foglio Excel che non sulle onde della scrittura creativa.
Laureata a Brescia, un’esperienza a Londra come ricercatrice nell’ambito dell’economia dell’innovazione, si è a lungo occupata di brevetti, prima per una società di Milano, poi per Trentino Sviluppo, all’interno di quell’incubatore che doveva raccogliere i lavori dell’Università di Trento, della Fem e di Fbk per trovare una collocazione sul mercato. Poi il passaggio al progetto Aquile Blu per lo sviluppo delle società trentine. Nel 2016 l’ingresso nel cda delle Terme di Comano (un ritorno a casa per lei che è di Ponte Arche) e successivamente la nomina a consigliera delegata.
A scompigliare la linea continua del curriculum vitae di Andreolli, il recentissimo arrivo in libreria di «Le storie di nonno Gianni. Quando non esistevano le banane. E neppure i kiwi» (edizioni Valentina Trentini). Opera prima di Elena, realizzata con l’aiuto del figlio di dieci anni, Mattia, autore delle illustrazioni e primo destinatario della pubblicazione, e con il progetto grafico di Benedetta Andreolli, cugina dell’autrice. Cinquantadue pagine, dodici storie, una per ogni mese. Un’immersione nell’infanzia – lo dice il titolo – di nonno Gianni, padre dell’ingegnera, nato e cresciuto a Madice, frazione di Bleggio Superiore. Sono le storie di un mondo piccolo, che tanto assomiglia al Mondo Piccolo di Giovannino Guareschi, gli anni della guerra e, poi, della speranza. Anni dove spazio e tempo sono dilatati e l’avventura è andare in corriera a Trento, non in aereo a Taiwan, e l’esplorazione è spingersi fino alla «parte bassa del paese». Anni in cui le banane e i kiwi forse li trovavi in qualche illustrazione e non sui banchi del (super)mercato. Anni in cui la fantasia faceva galoppare i giochi e le menti giovani non erano schiave della Playstation.
Elena, perché un libro per bambini?
«Devo fare un salto indietro di quasi dieci anni, un momento particolare della mia vita. Ero appena rientrata al lavoro dalla maternità, in un contesto diverso, sede e colleghi nuovi. Volevo costruire qualcosa per me, ma il mio impegno professionale non me lo permetteva. Passavo i pomeriggi a Ponte Arche con mio padre, che raccontava le storie della sua infanzia: ho cominciato a scriverle, senza velleità, visto che non ho mai avuto una particolare vena narrativa».
È nata così l’idea del libro?
«In verità no. Pensavo di realizzare un fotolibro da regalare a mio figlio a 5-6 anni. Poi è uscito un bando per un concorso letterario dell’Ecomuseo. Era destinato a racconti fantastici, ma io ho comunque mandato il mio manoscritto. “Bello” mi hanno detto, ma non era quello che volevano, anche se alcuni editori si erano mostrati interessati al mio lavoro».
Poi ha fatto un passo oltre.
«Ho aggiunto quattro storie, inizialmente erano otto, e ho mandato il testo ad alcuni editori, trovando la disponibilità di “Valentina Trentini”».
Con quale obiettivo ha deciso di pubblicare il libro?
«Quello di mio padre è un mondo che, pur temporalmente vicino, è ormai scomparso: è una generazione che ha vissuto enormi cambiamenti. Raccontare quel mondo a mio figlio, ai bambini, è mettere un ancoraggio, un filo che li riconduca ad un baricentro. Oggi i bambini vivono nel cestello di una lavatrice che fa la centrifuga. Eppure trovare un equilibrio è possibile, senza per questo lasciare tutto ciò che si sta facendo per andare a lavorare in una malga».
Il tema del gioco ricorre spesso nel libro
«Era il tempo della fantasia e dello stupore, anche solo per un gelato. Allora bastava una zucchina per creare una bambola. Oggi i bambini hanno tutto e tendono a raggrupparsi attorno ad uno smartphone. E si annoiano. Vivere una vita mentalmente sana, significa anche vedere una strada verso il futuro. Mio padre è stato tante cose: ha vissuto dieci anni in Canada, è stato imprenditore e alpinista, è un contadino. Io stessa sono tante cose. Vorrei che anche mio figlio avesse questa vita piena».
Nel libro chi parla, il padre di Elena?
«No. È la narrazione di un mondo visto con gli occhi del bambino Gianni».
Come ha vissuto suo padre la pubblicazione del libro?
«Da una parte con orgoglio, dall’altra con pudore: in fondo le storie che racconto fanno parte della sua intimità».
La scrittura è una parentesi chiusa con questo libro?
«È una parentesi che rimane aperta. Avevo a cuore un altro progetto, “Serva a Milan”, per raccontare la storia delle donne trentine che andavano a servizio nel capoluogo lombardo. Ma, di fatto, non ci sono più testimoni di quegli anni. Mi piacerebbe anche scrivere un libro sulla genitorialità, che oggi ha molto modelli».
Manager e scrittrice per bambini. Come convivono queste due anime?
«Quello della manager è uno stereotipo nel quale si rischia di rimanere bloccati, dovendo sempre rispondere a quella immagine. Io vivo tutto con naturalezza: se dai molto da una parte, il lavoro, devi trovare un equilibrio dall’altra».
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