L'intervista
domenica 16 Giugno, 2024
di Paolo Morando
Segretario del movimento giovanile della Democrazia Cristiana dal 1977 al 1980, deputato dal 1996 al 2006 per il centrodestra (e per qualche mese vicepresidente del Consiglio nel secondo governo Berlusconi), poi senatore per altri sette anni, in cui passò al centrosinistra, Marco Follini ha oggi quasi settant’anni (li compirà a settembre). Ed è da tempo lontano dalla politica attiva. Che però continua a osservare da vicino, con crescente disincanto. Domani sarà a Trento, alle 17 nel Salone di rappresentanza di Palazzo Geremia, per l’incontro conclusivo di «Quel che resta di Alcide. Viaggio nelle memorie della Repubblica», il ciclo di incontri pensato per riflettere sull’eredità di Degasperi a 70 anni dalla sua morte. Con il professor Giuseppe Tognon, presidente della Fondazione Trentina Alcide De Gasperi, si confronterà sul profilo politico dello statista e sulle radici degasperiane della nostra Repubblica. La rassegna è organizzata dalla Fondazione Trentina Alcide De Gasperi e dall’Istituto Storico Italo-Germanico della Fondazione Bruno Kessler, con il patrocinio del Comune di Trento e la collaborazione della Fondazione Museo storico del Trentino. Il dialogo sarà moderato da Flavia Piccoli Nardelli, presidente dell’Associazione delle istituzioni di cultura italiane (Aici). Gli incontri sono liberi fino a esaurimento posti, senza bisogno di prenotazione. La frequenza è riconosciuta ai fini dell’aggiornamento del personale insegnante. Info: mail a comunicazione.fdg@degasperitn.it, tel. 0461.314247.
Follini, si è appena rinnovato l’Europarlamento. Che fine ha fatto dopo questo voto l’Europa pensata da De Gasperi?
«Quando il 51% degli elettori non va a votare, ed è la prima volta che accade nella storia della Repubblica, lì si misura la distanza tra i sogni e la realtà, tra gli impegni assunti dalle generazioni che hanno fondato la Repubblica e la capacità della nuova classe dirigente di corrispondervi. Possiamo almanaccare sui voti che si sono spostati di qua e di là, analizzare i risultati dei partiti e dei candidati, ma quello che conta è il valore complessivo del voto. O meglio: del non voto. E quello crea una distanza».
L’esito del voto, soprattutto in Francia e Germania, ha dato il via a una serie di riposizionamenti delle forze centriste di governo. De Gasperi probabilmente mai ci avrebbe pensato: la storia lo dimostra.
«È sempre un po’ ardito paragonare quel tempo al nostro. De Gasperi ha operato negli anni dell’immediato dopoguerra, quando ci si doveva riprendere da una ferita profonda inferta ai Paesi che avevano combattuto l’uno contro l’altro. La generosa genialità politica di De Gasperi, e con lui di Schumann, Adenauer e di molti altri, ha fatto sì che si aprisse a favore delle nuove generazioni un contesto storico completamente diverso, direi quasi capovolto rispetto a quello degli anni Trenta. Però sono cose risapute. Quello che si sa meno, e su cui meno si riflette, è la nostra capacità di corrispondere a quel canone. E da quel punto di vista noi siamo terribilmente indietro».
Sull’idea degasperiana di un centro che guarda verso sinistra, politici e storiografi dibattono da anni. Oggi, in Italia, quel centro che fine ha fatto? Il voto europeo ha dato risultati catastrofici.
«È una bella domanda. Io penso che nell’animo del Paese una posizione moderata con venature di progresso sia ancora largamente diffusa. Questo quadro politico rende difficile il suo riconoscimento, però insisto: noi dobbiamo fare i conti con quella maggioranza di elettori che a votare non ci va più. È chiaro che il 49% in qualche modo si accontenta di quello che c’è. Chi ha in animo di ricostruire una posizione come quella di cui si diceva deve soprattutto rivolgersi a chi non è contento di come vanno le cose e spinge la sua scontentezza fino al punto di non votare. Si tratta di fare una scommessa anche un po’ ardita, che esca dagli schemi, accantonando l’idea di perpetuare gruppi dirigenti di cui il Paese mostra di essere stanco. Personalmente io mi sono chiamato fuori ormai una dozzina di anni fa, perché avevo la percezione che si stava voltando pagina e che c’era bisogno di una generazione nuova che avesse le sue idee, la sua sensibilità, e che non proseguisse troppo nel solco del passato prossimo. Oggi resto ancora più convinto di questa idea».
Il trend dell’astensionismo elettorale è però profondo: a ogni voto si accentua. E sembra irreversibile. Non c’è quindi da chiedersi qualcosa di più generale circa il futuro della democrazia nei Paesi occidentali?
«Indubbiamente in tutti i Paesi occidentali, e segnatamente in quelli europei, c’è una crisi della politica che rischia di diventare anche crisi della democrazia. È un dato con il quale facciamo i conti, con alterne fortune e con alterni sentimenti, da qualche anno a questa parte. Resta il fatto però che nella politica esistono alcuni valori fondamentali. E l’Europa è uno di questi. Tanti più in un momento in cui il mondo è sottosopra, vecchie e nuove compagini si vanno scompaginando e la guerra è a pochi chilometri dalle nostre frontiere. Dunque c’è bisogno di una immaginazione generosa che spinga nella direzione di una maggiore unità dei Paesi europei e di una maggiore semplicità della costruzione europea. Probabilmente l’allargamento che abbiamo fatto in modo un po’ spensierato, senza curare nel frattempo la revisione dei meccanismi di consenso e quindi lasciando in piedi tutti i poteri di veto che oggi stanno paralizzando l’Unione, fa parte di un errore che siamo chiamati in qualche modo a correggere. Non è facile, dal momento che basta uno solo dei 27 a dire di no e la carovana si ferma».
Lei ha attraversato la cosiddetta Seconda Repubblica. Ma che cosa rimpiange di più della Prima?
«Io sono figlio della Prima Repubblica. Sono capitato nella Seconda per caso, non mi sono trovato troppo bene e ne sono uscito abbastanza presto. Comunque mi sentivo in trasferta. Io credo che la Prima Repubblica ci lascia due fondamentali principi: il primo è quello della rappresentatività. Nella Prima Repubblica avevano titolo ad alzarsi, parlare e decidere quanti avevano dietro di sé un consenso reale. Non perché eredi del consenso altrui, non perché sospinti dai leader di turno, ma perché ognuno, anche l’ultimo dei parlamentari, aveva dietro di sé un piccolo mondo che giustificava il fatto che sedesse alla Camera o al Senato. E non c’era obbedienza servile. Era una classe dirigente non perfetta, con alcune figure meno brillanti, ma che aveva dalla sua un alto grado di rappresentatività: alle sue spalle c’era consenso».
La stessa partecipazione al voto di allora lo dimostra.
«Esattamente».
E il secondo principio?
«La seconda caratteristica di quel mondo era che anche nel mezzo di scontri che a suo tempo furono piuttosto furibondi, e in presenza di ideologie che erano fortemente divisive, non è mai venuta meno la civiltà dei rapporti. Una scena come quella che abbiamo visto l’altro giorno a Montecitorio era inimmaginabile negli anni della Prima Repubblica. Si è arrivati vicini a quel limite estremo quando c’è stato il voto sul Patto Atlantico e poi quello sulla cosiddetta “legge truffa”, molto cosiddetta e poco truffa. Ma al netto di questi momenti, che si spiegano anche con il contesto dell’epoca che era particolarmente teso, per anni e anni si è andati avanti rispettandosi a vicenda, ascoltandosi, traendo profitto gli uni dalle parole degli altri, mettendo le idee a confronto. Questi energumeni che abbiamo visto all’opera disonorano il Parlamento, la politica e anche loro stessi. Il problema è che non se ne accorgono e nessuno glielo dice con la dovuta energia. Qualche scapaccione glielo dovrebbero dare proprio coloro che li hanno eletti».
E invece neppure i loro elettori glielo dicono. Viene il sospetto che quei loro elettori non si sentano affatto disonorati, anzi.
«Infatti. Ci sono alcune frange di elettori che si scaldano al calor bianco di un tifo che è appunto da trogloditi».
Da questo punto di vista la rappresentatività è ancora molto alta.
«Non c’è ombra dubbio, il problema è anche questo».