La storia
martedì 26 Novembre, 2024
di Benedetta Centin
«Ho lasciato casa mia, i miei affetti, stravolto ogni cosa, pur di tutelare i miei bimbi dal loro padre che non si è fatto remore di usarmi violenza anche davanti a loro e che, ho scoperto solo in seguito, aveva abusato sessualmente anche delle mie figlie più grandi quando erano solo delle ragazzine. Sono scappata da lui ma ha continuato a vessarmi, sminuirmi, perseguitarmi in ogni forma. Lui e suo padre me l’hanno promessa, pronti a tutto pur di farmela pagare. Da qualche mese sono in una casa protetta con i miei piccoli. Nessuno sa dove siamo. Sono stata costretta a farlo: non avevo alternative. Qui mi sento al sicuro ma la paura di morire, di non tornare, c’è ogni giorno. Ogni qual volta esco da sola da quella porta».
La voce di Maria (il nome di fantasia ndr) è di una dolcezza disarmante anche quando riferisce – il racconto è agghiacciante – dell’incubo in cui è stata inghiottita da sei anni a questa parte. La grande sofferenza che continua a patire l’ha sfiancata, logorata, eppure la cinquantenne non smette di combattere. Per proteggere se stessa e i figli da un uomo che «diceva di essere innamorato» ma che nel tempo ha fatto prevalere la sua vera indole, scoprendosi per il mostro che è, come riconosciuto anche dall’autorità giudiziaria che ha già aperto tre procedimenti penali a suo carico (uno dei quali già definito con una pena a due anni) e che gli ha imposto il divieto di avvicinamento all’ex moglie e ai figli (e pure il braccialetto elettronico che però non è ancora disponibile). E nel frattempo gli è stata anche sospesa la responsabilità genitoriale.
Maria, ha detto di essere stata costretta a lasciare la sua abitazione per essere accolta in una casa protetta. Come si arriva a questa decisione?
«Ero stremata, al culmine dell’ansia, dal panico, dall’angoscia. Mi sentivo vulnerabile e impotente. Non sapevo più come continuare a difendermi. È stata una decisione difficilissima, temevo per me e per tutta la mia famiglia. Il mollare tutto, casa propria, la famiglia a cui sono molto legata, è passato però in secondo piano: dovevo mettermi in sicurezza con i bambini. Certo, per me e i miei parenti è stato un cambiamento durissimo ma del resto la nostra quotidianità era già stata stravolta dalla violenza (non solo fisica) subita nel tempo. La verità è che, venuta meno la libertà, non hai più nulla da perdere».
Come è arrivata a chiedere aiuto? C’è stato un episodio in particolare?
«Chiedo aiuto da sei anni, dalle prime violenze. Ho cercato di tutelarmi in ogni modo possibile, di conciliare, di andare d’accordo con l’uomo da cui mi sono nel frattempo separata e dai suoi genitori. Tutto inutile: la situazione è solo degenerata. Ho cercato una consulenza al Centro Antiviolenza e ho contattato anche i Servizi sociali. Le minacce di morte, a me e ai miei figli, la possibilità che si concretizzassero, mi hanno fatto capire che non c’era tempo da perdere, che bisognava agire. Scappare. Fuggire. Era già successo la prima volta che mi sono presentata dai carabinieri, di subire minacce pesanti. “Ti farò una cosa che non dimenticherai e poi la farò finita” mi aveva promesso lui allora. Innescando in me una paura reale, non un semplice timore: poteva davvero succedere».
Ma ciò nonostante si è ripresentata in caserma, vero?
«Sono tornata una seconda volta a denunciare dopo la separazione e dopo quasi due anni di stalking, violenza psicologica, rifiuto dei figli, manipolazione e minacce anche da parte dei familiari di lui, di pestaggi che il mio ex mi ha fatto subire anche in pubblico e davanti ai figli, e pure a suo padre (il nonno), che comunque lo ha sempre protetto, dicendomi di tacere. Ho capito che non aveva più senso cercare di conciliare: il mio ex non era disposto a farlo. Dopo mille volte in cui avevo chiesto aiuto la mia vita era ancora in mano a lui e alla sua famiglia. A quel punto ho chiesto di essere accolta in una struttura protetta: la paura di morire era forte».
Eppure lui diceva di amarla, no?
«Mi faceva sentire una donna speciale, amata, e si è saputo guadagnare l’affetto della mia famiglia. Mi ha fatto innamorare al punto di sposarlo e fare figli mentre abusava sessualmente delle mie bambine, mascherando tutto. E se da una parte mi esaltava, dall’altra mi faceva sentire una nullità. Mi dava e poi mi toglieva tutto. E questo altalenarsi non mi ha fatto vedere la gravità dei fatti. Il cervello in quel momento minimizzava. Anche suo padre mi ha manipolato per tenermi sotto controllo, per fare in modo che non denunciassi il mio ex: mi diceva di non dire niente a nessuno, che mi avrebbe aiutato lui a sistemare le cose. E quando ho denunciato lui e sua moglie mi hanno dichiarato la guerra. “Se ci tolgono i bambini non li avrai nemmeno tu” mi hanno intimorita. E sono seguite persecuzioni, diffamazioni, false testimonianze. E minacce di morte».
Come vittima si sente tutelata da autorità giudiziaria, istituzioni, forze dell’ordine?
«Per tanti anni non mi sono sentita creduta, presa sul serio, aiutata. Una sensazione tremenda. Ho chiesto aiuto, ho spiegato e raccontato una storia terribile a tutte le istituzioni, ma a parer mio non veniva mai vista la gravità dei fatti. Nessuno mi spiegava cosa succedeva, cosa potevo chiedere, a quali aiuti potevo accedere in quanto vittima di violenza. E questo mi ha fatto arrabbiare. Secondo me il sistema presenta delle falle, e questo non può essere: ce ne rimettono le vittime. È stato grazie a degli avvocati preparati e competenti che sono in una casa protetta. Ora mi sento tutelata, ascoltata. Ma sono convinta che anche gli uomini maltrattanti debbano essere spostati, isolati, non solo noi donne vittime».
Che consiglio può dare a donne che hanno vissuto situazioni simili alla sua e non hanno il coraggio di denunciare chi fa loro del male?
«Non è mancanza di coraggio il non denunciare. Io ero forte, indipendente, capace, ma la violenza subita giorno dopo giorno ha ammazzato una parte di me, in cui muore l’autostima, la fiducia in te stessa, la tua identità, la capacità di riuscire a riprendersi la forza per ripartire. Le violenze sulle mie figlie mi ha fatto trovare la forza. Il mio consiglio è di raccontare. Urlare. Raccontare a tante persone, urlare altrimenti la violenza te la accolli tutta da sola. Più persone sanno, più riprendi forza, più ti senti creduta. E mai stare da sola: bisogna togliersi la vergogna di piangere, di essere debole. Bisogna non aver paura di far soffrire i familiari, perché spesso la sofferenza degli altri ti porta a non denunciare. È importante non isolarsi e affidarsi alle persone giuste, non fidarsi di chi minimizza».
E fuggire dalla violenza, giusto?
«Sì, scappare. Anche se però dopo la denuncia non va a posto tutto, si possono subire ancora ingiustizie: devi essere pronta. Magari la violenza finisce, ma continui a rivivere, a dover raccontare. La differenza è che ora la violenza la condividi, con chi ti sta vicino, con le istituzioni, con professionisti che ti aiutano. La denuncia non significa risolvere tutto e subito, c’è un percorso, dovrai rivivere la storia molte volte, la differenza è che sarai aiutata. Alla donna vittima dico muoviti, denuncia perché nessuno lo farà per te e solo parlando e chiedendo e urlando troverai le risorse e le persone giuste che ti sosterranno in questa prova dura. Ti aiuteranno a riprendere con fatica la tua dignità e libertà».
25 novembre, contro la violenza
di Benedetta Centin
L'11 gennaio scorso l'operatrice olistica fu uccisa dall'ex compagno Igor Moser, padre dei suoi figli. «Non ci disse nulla per proteggerci. L'omicida? Rabbia»