La storia
venerdì 1 Novembre, 2024
di Walter Facchinelli
Maria Maffei «pinzolera doc» e dottoranda all’Università di Bergamo, lunedì scorso al «Recital multilingüe» alla Biblioteca di Pontevedra (Spagna) ha esposto la sua traduzione nel dialetto di Pinzolo della poesia «A Cabeleira» di Claudio Rodríguez Fer – poeta e professore dell’Università di Santiago de Compostela e direttore della Cátedra Valente – col chiaro obiettivo di «cogliere un’opportunità di tutela e autoaffermazione dell’identità rendenese».
Maria, qual è il suo percorso?
«Nel 2022 mi sono laureata in lingue e letterature straniere all’Università di Trento, ora sono dottoranda all’Università di Bergamo e docente di letteratura spagnola nel corso di laurea in Scienze Linguistiche al Ciels di Brescia. La mia ricerca verte sulla poesia panispanica dal dopoguerra a oggi, facendo attenzione a dinamiche traduttologiche, transtestuali e transmediali. Ora sono all’Università di Santiago di Compostela per un periodo di ricerca, qui è nata l’idea di tradurre “A Cabeleira” in dialetto pinzulèr».
Quali caratteristiche ha la poesia di Claudio Rodríguez?
«A Cabeleira è in galiziano, ma è stata tradotta in più di 70 lingue, dalle più comuni: spagnolo, francese, tedesco, italiano, alle più remote: Rapanui (Isola di Pasqua), lingue africane come Swahili, Wolof, Lingala, Bubi. Ora, anche in pinzulèr».
Cosa significa per lei valorizzare il suo dialetto nativo?
«Non c’è Pinzolo senza pinzulèr. Non ricordo di aver mai parlato italiano con i miei genitori, nonni, zii o cugini. La realtà attuale è scandita dal turismo di massa sempre più invadente, ma non dovremmo dimenticare che, prima di essere tutto ciò, siamo le nostre tradizioni. Prima di essere la Perla delle Dolomiti, ricordiamoci di essere i “fiöi dai mulöti, cai fava filö, ca i magnava pulenta e lat, canedarli e ca i nava dré al bistiam”. Dimenticare il nostro dialetto è dimenticare le nostre radici, e con loro i sentimenti che vivono solo in quelle sfumature di significato così profonde che solo una lingua così intimamente legata al suo territorio e alle sue persone può custodire».
Una lingua popolare, si può tutelare da sola?
«No. Sta a noi renderla viva coi modi e mezzi di cui disponiamo. Parlandola con orgoglio, raccontandola a chi non la conosce e, perché no, dando voce a grandi poeti attraverso la traduzione in dialetto, un atto che riscatta e rende viva la magnifica singolarità di una lingua che rischia di perdersi. Le dinamiche sociali e lavorative ci allontanano sempre più dal ricchissimo patrimonio linguistico e culturale che il dialetto custodisce: perché, allora, non mantenere viva la mia madrelingua attraverso la traduzione?»
Come è stata l’esperienza di tradurre in pinzulèr la poesia di Claudio Rodríguez Fer?
«Particolarmente interessante. Il pinzulèr codifica e ritaglia la realtà di Pinzolo: un vero e proprio microcosmo autosufficiente e autonomamente regolato nei suoi equilibri, diversificandosi così da ogni altra lingua. Non è stato un semplice travaso da lingua a lingua per ottenere un testo equivalente, bensì leggere e codificare le immagini del testo attraverso il prisma del nostro dialetto».
È stato facile tradurre una poesia intimamente collegata al poeta, alla natura e ai paesaggi della Galizia?
«No. Come traduttrice mi sono scontrata subito con il dislivello semantico legato alle peculiarità del pinzulèr. Ad esempio, come veicolare l’idea di immensità e infinitudine dell’ignoto che la poesia evoca attraverso il mare, in una lingua che il concetto di “mare” non lo possiede? Con l’ambito semantico del bosco: “abismo” (abisso) è diventato “orbadi” (burrone), “naufraxio” (naufragio) “temporal”. Noi, poi, non abbiamo il concetto di mandria: osservava Carla Maturi – bibliotecaria del Comune di Pinzolo e filosofa – l’allevamento era limitato a quei quattro o cinque capi utili al sostentamento della famiglia, da qui la traduzione: scungiübla di vachi. “Laberinto” (labirinto) che in dialetto non esiste, l’ho mutuato con l’idea di un luogo intricato, ingarbugliato, difficile da percorrere, rifacendomi all’immagine di ogni nonna che “guciava” (lavorava a maglia), da qui la traduzione “gramusel ‘ngatià” (gomitolo aggrovigliato)».
Come è andata la serata e cosa si propone per il futuro?
«Direi molto bene. Il fatto che il nostro amato dialetto pinzulèr sia stato accolto con grande entusiasmo in un contesto non solo poetico, ma internazionale e di matrice accademica, è per me, ma credo per tutti noi, motivo di grande orgoglio. Ora non mi resta che portarla a Pinzolo e leggerla in Pinzulèr.»